mercoledì 27 maggio 2015

Rosa Maria Ponte - La tragica bellezza (Ed. Sciascia)

di Carmelo Fucarino

Pensando alla gelida freddezza dell’e-book, tecnologico come tutta la episteme americana, bianca tavoletta che reagisce e risponde al tatto. Il sentimento che ci fa amare o respingere, la gioia del possesso di qualcosa che è unico e nostro. Per me il libro è ancora questo, profumo di carta, anche con il sottofondo di petrolio, magia che lo rende unico, singolare compagno di affabulazione e di sogni. Fra le due mani, le due pagine aperte in un continuum che non ammette stasi e pause. Sul comodino nell’attesa di notti di insonne desio. Nello scaffale con la costa in evidente attesa, sbirciante i miei riposi, ancor sempre brevi. Perché quel libro che ho scelto fra tutta la pila, quello e solo quello sarà sempre l’unico mio esemplare, per tutta l’esistenza. Con qualche involontario graffio, anche quando la copertina sarà ingiallita.
Perciò la sua singolarità si concede e ci avvolge in un profondo amplesso,in tutte le sue parti. A cominciare da quelle più evidenti, la sua veste, che in greco diede nome all’estetica, la filosofia del bello, della bellezza “percepita” (da aisthánomai, “percepisco attraverso i sensi”). La “copertina”. Brutto quel “cover”, che mi sa di eterno riposo. La copertina è il primo gesto di presentazione, il sorriso o la tristezza, pur sempre la bellezza. Mi fanno pena quei cosiddetti libri in cui la trasandatezza, lo schiaffo del quotidiano, vogliono apparire come forme di originalità. La maglietta pienamente distesa, un pantalone, un cavolo, un reggiseno, addirittura una gialla banana. Si vuol stupire con la banalità. Si vuol apparire originali nello sberleffo del quotidiano abusato. Perché alla fine quella copertina rappresenta l’inutilità della scrittura fra quelle pagine chiuse.
Questo gironzolare alla larga su una esistenziale unica amicizia terrena voleva essere un modo per sciogliere il ghiaccio, per presentare un oggetto vivente, che parla e ascolta e sa dare risposte, ma soprattutto riempie la nostra esistenza. La occupa e possiede con l’affascinazione del Logos, del Verbum, della “Parola” che è divina, è lo stesso Dio.
La bellezza evocata nel romanzo di Rosa Maria Ponte esplode già nella copertina (La tragica bellezza, Salvatore Sciascia editore, Caltanissetta-Roma, 2014, € 18). Ed è il modo di presentarsi al lettore, una indicazione di scelte estetiche e di tragitto. La copertina è infatti un suo olio su tela che ha titolato Dopo la tempesta. I colori si intrecciano ed inseguono nella loro frastagliata impossibile apparenza, il verde che sbiadisce nel luminoso e si rifrange nel rosso, un relitto informe con una prua arcuata a gondola, abbandonato di traverso sul fondo,ove alghe e improbabili fiori marini tendono verso la luce. Un pesce grande come un quarto di scafo, pare un sarago, altri che sgusciano come impazziti, in tutte le direzioni alla sommità. Titolo e composizione rimandano entrambe ad una surrealtà che rimane arcana e misteriosa nella citazione rievocativa o descrittiva e nella sua rappresentazione. Qui penso ad André Breton: Chèr eimagination, ce quej'aimesur tout en toi, c'est que tu ne par donnespas (Manifeste du Surréalisme, 1924).
Come d’altra parte il titolo del libro, che tende a stravolgere le qualità primigenie del bello. Se si pensa alla definizione più perfetta e sublime della bellezza, “serenatrice”, da parte di un pessimista che portò tanti giovani al suicidio: «l’aurea beltate ond’ebbero / ristoro unico a’ mali / le nate a vaneggiar menti mortali». Ma già proclamata in quella dimensione più “eroica” (nella lettura etimologica di Giordano Bruno), in cui Platone collocava la bellezza: «ed è qui che perviene l’intero discorso riguardo alla quarta specie di divina mania: quella per la quale, qualora uno veda la bellezza di quaggiù, riandando nel ricordo alla bellezza vera, si doti di ali e rizzando le piume agogni di volare, ma impotente a farlo, guardi in su a guisa di uccello e trascuri le cose di quaggiù, ha l’accusa di essere folle. Questa mania è la migliore fra tutti gli invasamenti e deriva dai migliori, tanto per chi la possiede quanto per chi ne partecipa. Ed è per ciò che chi partecipa di questa mania divina ed ami i belli, è detto amante» (Fedro, 249 d-e).
Non intendo analizzare la dimensione di questa bellezza e la valenza di tragico. Pongo soltanto la questione dei due simboli in copertina: il relitto che nella quarta è spiegato con un titolo equivoco per uno scafo adagiato in modo scomposto in un prato in fondo al mare, con la fine di una tempesta (la quiete, il rasserenamento leopardiano?), e la bellezza che è definita tragica nella sua intrinseca essenza, nel suo attributo e non nel suo predicativo. Naturalmente nella copertina l’autrice intende lanciare precisi avvertimenti e la simbologia dei due termini vorrebbe essere la spia di una verità. Ma quale? Non è che l’oscura ed enigmatica massima taoista ci possa servire a individuare una traccia. Confonde di più le idee con riverberi culturali estranei alla concezione del bello come lo trasmisero in eterno Prassitele e Fidia.
La circoscritta “storia immaginaria” comincia con una partenza, un viaggio. E perciò si sviluppa con tutti gli ingredienti di un viaggio odierno, le raccomandazioni della banalità quotidiana, il taxi e la corsa verso Fiumicino. L’aereo e il salto oltre. Due punti uniti dal nulla etereo.
Una paginetta e poi lo scirocco di una Sicilia del 1860. Sembra che il tempo cronologico si sia azzerato, l’orologio è tornato indietro, si suppone di un secolo e mezzo. Si suppone, perché se il passato è ben focalizzato e scrutato nelle sue evanescenze che tornano a realizzarsi, il presente non trova una sua precisa temporalità. Nessun avviso, nessuna indicazione di rotta. Tutto è avvenuto in un cortocircuito temporale e spaziale, da una Roma odierna, di quando?, ad un paesino arretrato del trapanese che, senza alcun suo merito, entrò nella storia della Nazione. Inutile chiedersi le ragioni di questo scarto improvviso, bisognerà abituarsi a questi celeri mutamenti di situazioni e di tempi. Come è nella tecnica narrativa della scrittrice, a cominciare dal suo primo romanzo Nel cuore della notte e poi nella serie di La collezionista di guanti e altri racconti, i tempi reali si intrecceranno compulsivamente a volere rappresentare questo intersecarsi di passato e presente nella lettura esistenziale delle azioni e dei pensieri umani. Come se il presente, nel suo farsi imminente, non fosse altro che una serie di sezioni del passato. Anche di sprazzi di futuro che affioreranno in deliri e angosce oniriche, in incubi e ascensioni, e si perderanno in surreali e arcane verità che solo l’autrice può capire a fondo.
Tutta la vicenda dunque si snoda in un inseguirsi di presente, pieno di attese e di ricerche di verità, tra la Roma appena sfiorata e soltanto nominata, e la New York vista e sentita attraverso lo stupore del primo incontro e dell’amore a prima vista. Non solo i grattacieli, abituali oggetti connotativi della città, con il loro nome surreale e impensabile per un palazzo, l’americano sky scraper, cioè l’altissimo albero maestro dei brigantini inglesi. Ma quella particolare atmosfera che si prova negli odori delle Streets, in quel fumo che esce dai tombini, nei mercatini di rione o nelle Little Italy, nel pollo fritto e nelle Steakhouse. Anche a Palermo se ne trova una. Il romanzo vive il presente in questa dimensione non meno onirica di una New York incantata, stupenda e inconfondibile fino alla sequenza lunga della Funeral house, la location gelida ed anonima della morte, ove fa da bordone un insolito Diesirae. C’è l’incontro con una cugina svanita di cinema e di memorie appassite in sogni di gloria, c’è il misterioso senatore che tronca il passato con la sua fuga improvvisa, la soluzione estrema, il rifiuto assoluto della verità che giunge fino alla scomparsa fisica. La verità. Sembrerebbe a portata di mano e svanisce tra intrigate rievocazioni di un passato romanzesco e fughe rocambolesche di giovani e vecchi verso esotici porti. Perché se il presente è rodato su una verità chiara e senza veli, il passato si presenta nella probabilità degli eventi, nel “pensiero negativo”. Sembrerebbe che ognuno possieda una sua verità, senza che riesca ad incastrarla con quella degli altri. Perciò il riandare insistente, alternato nelle cadenze più o meno lunghe, alle campagne di Calatafimi, sa più di sogno e di riesumazione di spettri. I contadini appaiono fantasmi di un mondo appena sfiorato, sono esistenze che si perdono in sogni di prosperità e in una miseria che neppure la gratuita ricchezza ha saputo sconfiggere. Il pecoraio arricchito, i signorotti del contado, il professore svanito, il parroco perduto nell’arte e nell’irrisolto desiderio di un piatto di pasta, la levatrice e fattucchiera, fino al popolo anonimo, sono figure, più spesso macchiette che non riescono a trovare un vero ubiconsistam, perdute nella loro esistenza mitica e lontana. È una campagna che risulta di contatti epidermici, un mondo che si intrufola nella grande storia e cerca di trovarvi un posticino. Come quella lanterna magica che giunge nel nuovo mondo in una fabbrica di candele, per restare muto cimelio di un museo di abitatori frustrati.
Perciò alla fine la scrittrice (quale? quella di dentro o di fuori?) non riesce a sciogliere i nodi del passato. È giunta alla decisione che il romanzo giallo non era fatto per lei? Ha dato perciò un taglio al passato? Oppure sotto la finzione narrativa della recherche continua a insinuarsi questa esigenza di ammaliare il lettore, proponendogli misteri da risolvere, tra una sospensione e l’altra, tra un tempo da vivere e un tempo da scoprire?
Alla fine, anche l’amica, segretaria, inserviente, tutto fare ritorna nei ranghi abituali. Ed è lei la spia che alla pazzia del rifacimento delle pareti, un equivoco boudoir, alla rivoluzione di mobili e colori è subentrata l’esigenza della normalità, il ritorno al come prima. La padrona con il suo arcano antenato americano irrisolto e il vuoto di amore. L’altra, dopo l’illusione dell’amore marinaio, come se non sapesse della storia di “una donna in ogni porto. Tutto si è ricomposto dopo le sconsiderate fughe di entrambe nella piatta quotidianità dell’esistenza.
La ventata che le ha travolte e prospettato radiose avventure si è chiusa su una certezza.

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