lunedì 6 luglio 2015

La seduzione della trascendenza nella poesia di Maria Patrizia Allotta

di Antonio Martorana

Nella sua formulazione binomia (anima-alba), dalla forte pregnanza allusiva, il titolo della bella silloge Anima all’alba di Maria Patrizia Allotta (Palermo, Thule, 2012) ci predispone ad una “poetica trascendentale”, vista la centralità del rapporto tra un “io” sollecitato dalla pressante aspirazione all’Assoluto ed il senso metafisico del mondo.
   Toccare il tasto del ruolo tematizzante del titolo, e quindi immergersi nel magico cromatismo del risveglio aurorale della foto di copertina, significa trovarsi già sulla soglia di un microcosmo da esplorare.
   Vogliamo precisare che usiamo il termine soglianell’accezione proposta da Gérard Genette, per indicare l’ “insieme eteroclito”di produzioni, verbali e non verbali (titolo, copertina, dedica, epigrafe, prefazione, postfazione, fotografie, illustrazioni varie, scelte tipografiche e lo stesso nome della casa editrice) che danno al libro consistenza materica come presenza nel mondo e come prodotto di consumo.
   L’elenco di cui sopra, circoscrive così l’area della paratestualità, inerente la relazione tra il testo e i “segnali accessori, autografi o allografi,  che producono al testo un contorno (variabile) e a volte un commento ufficiale o ufficioso (…) e che è indubbiamente uno dei luoghi privilegiati della dimensione pragmatica dell’opera, vale a dire della sua azione sul lettore” (G. Genette, Palimpsestes, Senil, Paris, 1982, p. 9). 
   Nella postfazione al libro di Genette Soglie. I dintorni del testo (Einaudi, Torino 1987), da lei tradotto in italiano, Camilla Maria Cederna definisce la paratestualità come “frangia del testo che esiste solo in virtù di una decisione metodologica; area di transizione o meglio di transazione tra il dentro e il fuori, soglia o, per citare ancora un’altra metafora, chiusa tra la realtà socio-storica del lettore e quella relativamente immutabile e ideale del testo” (Soglie, cit. p. 407).
  Il paratesto è, per la Cederna, “il luogo privilegiato dell’istanza autoriale”, poiché è proprio in esso che l’autore, a livello diretto o indiretto, “manifesta la propria autorità nei confronti del testo e della sua interpretazione”.
   Ciò premesso, non abbiamo esitazione nell’affermare che esperire un approccio metodologico di tipo genettiano al libro di Maria Patrizia Allotta vuol dire focalizzare tutto lo spettro della significatività dei vari elementi paratestuali a disposizione, a cominciare dalla stessa veste tipografica, che chiama in causa le responsabilità ideative e realizzative della casa editoriale.
   Nel caso specifico, l’eleganza dell’ “abito” indossato dal testo e confezionato da Thule per la collana “Il quaderno di Munari”, inaugurata dalla silloge Dittici e altro di Nino Aquila, è pur esso espressione di un “commento autoriale”, facendo presupporre una legittimazione dell’Autrice nell’intento pragmatico e strategico “di far meglio accogliere il testo e di sviluppare una lettura più pertinente” (Soglia, cit. p. 4).
  Ritornando adesso alla foto di copertina, appalesante una innegabile correlazione tra il suo linguaggio iconico e gli enunciati verbali del testo, riconosciamo che la sua “quiddità” ha valenza di commento e implica la “responsabilità dell’autore” (Soglie, cit. p. 4009).
   Ancor più tale responsabilità aumenta se si tiene conto, nel caso specifico, che tutte le foto del testo, compresa la copertina, sono state scattate dalla stessa Allotta, come omaggio al padre, apprezzato maestro-fotografo.
   Sono scorci paesaggistici di rara suggestione. Qui è come se la parola, nella sua possibilità di dissolvimento, spegnesse il proprio suono, per palpitare attonita nell’incantato silenzio del creato, teatro di un ritrovato equilibrio nel rapporto uomo-natura.
   Passando alla Prefazione, altro elemento paratestuale che Borges considera il “vestibolo” dell’opera, vediamo come Nino Aquila colga una nota fondamentale del testo: la sua “spiritualità intensa”.
   Ma è grazie al denso intervento postfativo di Tommaso Romano che il lettore può penetrare nel “sentire profondo” della silloge. Egli ravvisa nell’orfismo di Maria Patrizia Allotta una weltanschauung, ma tale motivo meriterebbe un approfondimento in altra sede, poiché si entra nel terreno di quella “trascendenza testuale”, relativa al gioco delle relazioni di un testo con altri testi, che Genette definisce trantestualità(Soglia, cit. p. 412).
   Romano sottolinea la presenza in quei versi di una componente onirica caratterizzata da una “consustanzialità” alla vita, definendo il sogno come “il terzo occhio del cuore che false prospettive e illusioni allontana in nome di una inesausta ricerca di armonia e bellezza”.
   Arde in quella poesia un “fuoco di sacralità … come tributo all’Infinito”.
   E è il termine “fuoco” del citato passo romaniano a farci balenare nella mente l’espressione “cuore di fuoco, spirito di luce”, usata da Giovanni Papini a proposito di quell’ “operoso guerriero di Cristo” che fu Pietro Mignosi. Per questo “ingegno in moto perpetuo, il cervello più vivo che fosse in Sicilia fra il ‘15 e ‘37”, come a sua volta lo definisce Guglielmo lo Curzio (Scrittori siciliani, Novecento, Palermo, 1989, p. 148), la poesia è “quella essenzialità espressiva che dice il dicibile senza girarvi attorno e senza gonfiar la voce”.
   Alla luce di una cristallina affinità elettiva, sotto il profilo della consapevolezza della missione affidata al poeta e della scelta di una cifra stilistica dalla spoglia essenzialità, riteniamo che la frase papiniana “cuore di fuoco, spirito di luce” ben si adatti anche all’ardore del temperamento creativo della poetessa palermitana.
   La silloge Anima all’alba vede la luce in un momento storico segnato dalla pervasività della comunicazione tecnologica, che minaccia di inaridire la trasmissione della parola, sempre più incapace di creare dialogo, sempre più affossata nelle sabbie mobili di una virtualità anonima.
Tale deriva è il risultato di una gigantesca operazione di espropriazione dell’autonomia, portata avanti dall’industria culturale della società capitalistica, rea, per Adorno e Horkheimer, di avere “perfidamente realizzato l’uomo come essere generico”, a tal punto che l’individuo “è assolutamente sostituibile, il puro nulla” (T. W. Adorno – M. Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo, Torino, Einaudi, 1976, p. 161).
A fronte di tale scenario desolante si comprende il senso della sfida lanciata da una poesia rivelatrice di una trascendenza tenuta occultata dalla realtà fenomenica, e testimonianza di quelle “indelebili verità” che “sulla terra accadono senza luogo / senza perché”, di cui parla Mario Luzi in L’immensità dell’attimo (vv. 10-11). 
   Ponendosi in questa linea di tendenza, Maria Patrizia Allotta continua la tradizione orfica della nostra lirica, orientandola verso una prospettiva teologica dalla contingenza all’ “essere”.
   La sua silloge è un racconto autobiografico di un’anima che, ribaltando una gnome esistenzialistica sull’essenza spirituale dell’Universo, si attesta su posizioni di difesa del patrimonio valoriale attinto alla tradizione.
   La nota commotiva del risalire a questa come viatico del nostro cammino può cogliersi ne L’immensità di esistere:
Ai confini tra cielo e terra
scorge luminoso sole,
bagliore azzurrato marino,
in alto nuvole profughe.
Adesso vento stillato
non elimina e porta via
meglio,
inspiegabilmente
conduce
elementi essenziali del vivere.

Aria profumata ora
etere
spazio illimitato.

Respiro profondissimo
ricolma il reale del tempo andato
ma nella Tradizione si intravede il futuro

alito sconfinato
riporta destino dettato dal Cosmo
in esclusiva bellezza del vero

sospiro intimo
riconduce all’unicità
non del nascere
ma dell’essere.

Immensità d’esistere.

   Il bisogno dello spirito di trovare un definitivo approdo salvifico nello “splendore/del Verbo del Signore” permea la poesia Salmo 130:
Come in antico salmo
di pellegrino errante
 anche il nostro odierno canto
supplica l’Eterno

 s’innalza dai luoghi più profondi
la voce disperata
che prega ascolto
per esser consolata

si sente nel buio un grido di dolore
che implora 
al gran Mistero soltanto Amore

s’invoca, con mestizia,
l’atteso perdono
per far dell’unica esistenza
un grande dono


e si chiede con ardore
giustizia, benevolenza,onore

poi, lentamente
sopita ogni rabbia e
accettato ogni destino
lo spirito si placa
  certo dell’aiuto del Divino

e come guardia d’Israele aspetta
 il chiarore mattutino
così ciascun anima vagante
attende lo splendore
del Verbo del Signore.

La pregnanza simbolica del materiale lessicale utilizzato tesa a recuperare una parola assoluta e originaria, scaturisce da un’esistenza profonda di rifondazione verbale del mondo su base platonico-cristiana.
   La “ricerca veritativa” della poetessa palermitana, come la definisce Tommaso Romano, culmina alla fine nel momento epifanico dell’incontro con il Maestro:

Prima

nel tempo mattutino
il reale unito al contingente
dona quell’incessante sbandamento
che sradica e logora
mortifica
e a volte svilisce

poi
in abbandono

nel buio dell’universo notturno 
 rivive la magia dell’Oltre
scende l’impalpabile serenità dell’Infinito
si coglie la Bellezza cosmica
la santità del Sacro,
l’irraggiungibile Verità
nella ricerca incessante di quel
“senso del senso che è già Senso”.

E nelle preghiere confidenze
poi per esserci si ringrazia sempre.

 Suggerisce così il Maestro e
  l’nima all’alba
rinasce.
  
    I lessemi ricorrenti (Infinito, Bellezza, Sacro, Oltre, Verità, Amore, Divino) sono lame di luce che fendono l’opacità di questo nostro mondo, dove l’uomo, per usare le parole di Georg Simmel, viene “ridotto a una quantità negligeable, ad un granellodisabbia di fronte ad un’organizzazione immensa di cose e di forze che gli sottraggono tutti i progressi, le spiritualità e i valori, traferiti via via dalla loro forma soggettiva a quella di una vita puramente oggettiva” (G. Simmel, La metropoli e la vita dello spirito, Roma, Armando, 1987, pp. 43-44).
  Il messaggio di riscatto lanciato da Maria Patrizia Allotta intende offrire risposte definitive a una conduzione esistenziale affacciata sull’inquietante mistero della propria destinazione.
   “Tu non tocchi un libro, tocchi un uomo”: con tale precetto il critico statunitense Francis Otto Matthiessen, la cui fama resta legata all’opera American Renaissance(1941), intendeva responsabilizzare il lettore.
   Quel precetto vale anche nel nostro caso.
“Toccare” il libro Anima all’alba significa cogliere la sintesi dell’individualità dell’Autrice e della complessa cultura millenaria che ha dato forma ai suoi pensieri ed alla sua lingua, e le cui invisibili mani hanno concorso alla stesura del testo.
Mi piace adesso esplicitare la ragione per la quale parlo di “seduzione della trascendenza” nel titolo della presente nota.
   Affiora dai versi della silloge la deducibilità di un’idea di trascendenza come suprema espressione di una bellezza che rapisce, e quindi seduce, nell’estasi contemplativa.
   Coniugando “Estasi con bellezza”, come suona il primo verso di Estasi, l’Autrice proietta tale vertiginosa intenzione nella prospettiva di “quel mistero / voluto forse / da celeste Destino”.
Ravviso in tale enunciato, che sottende un concetto trascendentale di Bellezza, l’inveramento, sul piano della creazione poetica, di un tema-cardine dell’estetica teologica di Hans Urs von Balthasar.
   Nella visione di questo grande pensatore svizzero, definito da Pare de Lubac “l’uomo più colto del nostro tempo”, solo l’espressione estetica può rendere accessibile la rivelazione, mentre destinato a fallire sarebbe qualsiasi tentativo di approccio, basato sulle solite categorie conoscitive.
A pretesa di spiegare quell’evento attraverso una qualche elaborazione speculativa “significherebbe riportare la sfera dell’infondatezza translogica del dono personale d’amore (quindi la sfera dello Spirito Santo) alla sfera del logos, inteso come esclusivo intelletto cosmologico-antropologico”.
   E’ “nella figura luminosa del bello” che “l’essere dell’ente diviene visibile come in nessun’altra parte; e per questo un elemento estetico deve essere presente in ogni conoscenza e tendenza spirituale”. E’ quanto può essere verificato nello splendor che, anche per San Tommaso, accompagna il verum.
   La bellezza intesa come manifestazione della verità che Dio partecipa agli uomini “è l’ultima avventura in cui la ragione ragionante può arrischiarsi, ché la bellezza non fa che circondare con un impalpabile splendore il duplice volto della verità e della bontà e la loro indissolubile reciprocità”.
   Queste cose ci dice Hans Urs von Balthasar nella sua poderosa opera Herrlichket. EinetheologischeAesthetik (Gloria. Una estetica teologica, 7 voll., Milano, 1971 e segg.), che, mirando alla fondazione metafisica del discorso teologico, si pone nella …..  delle estetiche teologiche elaborate da Ireneo, Agostino, Dionigi, Anselmo, Bonaventura, Dante, Pascal, Giovanni della Croce, Hamann, Soloviev, Hopkins,Péguy.
   Trovo davvero sorprendente la consonanza con i temi portanti della riflessione balthasariana delle intuizioni metafisiche connotanti una poetica che, per Carmelo Fucarino, ruota attorno a una “antitesi esistenziale, in biancore dell’alba, raramente aurora, e l’incombente tenebra notturna che pure si attende con ansia come porto di riposo e di pace”. (Per la poesia di Maria Patrizia Allotta. L’anima di inesauribile, in “Sicilia Umanistica”, anno XXXIII, 2013, p. 6).
   Anche Maria Patrizia Allotta ha voluto, dunque, raccontarsi, come tutte le donne che, raccontandosi, sembrano confermare la “profezia” di  Geltrude Stein: “ci sarà un giorno in cui verrà raccontata la storia di milioni e milioni di donne …. di come sono in sé, nella loro vita” (C’era una volta gli Americani, Torino, Einaudi, 1979, p. 195).

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