venerdì 18 settembre 2015

AA.VV., "Le memorie di Elvira" (Ed. Sellerio)

di Carmelo Fucarino

Chi degli operanti nel campo della scrittura non fu sfiorato negli anni ’80 del secolo scorso dalla vampata della “Signora” Sellerio? C’erano allora solo pochi riferimenti locali per noi operai della macchina da scrivere, la piccola verde Olivetti 22 che spesso si impuntava ingarbugliando le asticelle dei caratteri. Il mio primo libro nel 1982, una traduzione dal russo di un romanzo per ragazzi, fu accettato da Vittorietti, pubblicato nello scolastico e pagato a forfait trecentomila lire in due. Il secondo, il mio prezioso Pitagora e il vegetarianismo, amato da Bent Parodi, fu edito senza obolo da parte mia, ma anche senza percentuale di diritti da parte sua dall’amico collega Antonio Giannone che alla partita doppia aveva preferito, pensionandosi da prof di tecnica, l’arte per lui quasi infruttifera dell’editoria di scienza alternativa alla quale sacrificava la sua magra baby pensione. Il terzo uscì da Brotto, una meticolosa edizione critica delle Supplici di Euripide, l’anno in cui Giusto Monaco ci stupiva con la sua versione centrata su Le madri. L’incantamento per la poesia e la cultura greca che non mi avrebbe mai lasciato. Oh, dimenticavo, le poesie, Città e ancora città, sfogo dell’anima e sfizio editoriale strettamente a pagamento, per fiducia e amore del compianto Carmelo Pirrera!
Poi, un giorno, su spinta e segnalazione di una cara amica, ebbi anch’io l’appuntamento e fui fatto accomodare, in trepida attesa, nel salottino che tanta celebrità avrebbe avuto e tante più esimie visitazioni, come è conclamato da tanti più fortunati. Per parte mia non ne ricordo assolutamente i particolari, non saprei indicarne gli oggetti, immerso nel pensiero e nella ricerca dei convenevoli. Non seppi e non mi accorsi di “divanetto di Sciascia” e di personalissime e gloriose suppellettili. Non mi ricordo neppure se ho avuto il premio della tanto decantata specialità, il suo originale Martini (testimonio Piero Violante). Sicuramente La Memoria era giunta al n. 23, con quella tanta esaltata Diceria, inserita tra la grandiosa caricatura di Dostojevskij, il tronfio e grottesco letterato di Stepancikovo, FomàFomìc, e il diario Per Eliza, chicca della scandalosa passione adultera dello Sternecolui che guidò la nostra giovinezza con il suo Viaggio sentimentale su consiglio di Foscolo. Perciò l’anno fu con sicurezza il 1981, certamente di poco successivo al Campiello, gloria da decantare per una piccola editrice di lontano,sperduto capoluogo di regione, ma di insignificanti e quasi assenti trascorsi letterari. A questo subito si appellò la “signora”, nel breve colloquio che riguardò il mio dattiloscritto. Lo avevo fatto rilegare con una copertina blu e se ne stava in inerte attesa nella mia carpetta poggiata sul divanetto. Senza richiedermi di lui, soggetto della visita, senza parvenze o promesse di incontri mi chiese semplicemente se sapessi cosa significasse un passaggio al Campiello. L’allusione era economica, come l’altra domanda su quanto costasse una recensione su L’espresso. Fatti i conti nelle vecchie lire e citati i risultati, mi dichiarò che un’opera prima di un autore sconosciuto richiedeva un grosso impegno, che dopo quello affrontato con Bufalino non poteva in quel momento permettersene un altro. Perciò non poteva accettare il mio romanzo. Nato secondo dopo la perdita di un primo, non ebbe neppure la chance di una lettura, neppure di unasemplice scorsa delle pagine. Un rifiuto netto e definitivo, senza che una semplice occhiata si fosse posata su quei caratteri e su quella impaginazione. Un miracolato della collana ebbe la grazia di uscire in pubblico per la veste tipografica del manoscritto. Senza speranze e senza attenuanti. Se volevo lasciarlo, ma senza impegni e senza speranze prossime future. Cosa avresti fatto? Lo abbandonai nelle sue mani, per sempre. Ed è rimasto per sempre dormiente nel suo scaffale (fino a quando, prima del macero?) e nel mio cassetto con il presuntuoso titolo di Katabasi.
Ora con un titolo alludente ed alquanto ambiguo nella sua articolazione escono ventitré esaltanti ed esaltate autobiografie che hanno la pretesa di commemorare da sole una lunga e complessa vicenda durata quarantasei anni e scandita da mille opere di autori, quanto mai diversi ed eterogenei,proposte nei decenni ai lettori palermitani e infine italiani. Lasciando in pace i molti protagonisti morti che per la loro condizione rimangono soltanto testimoni della scelta culturale della “Signora”, c’è da chiedersi perché dei tanti altri beneficati solo questi ventitré hanno potuto manifestare corampopulola loro beatitudine. Lo ribadisco, questa impressione si ricava dalla lettura di siffatta raccolta, il libro delle beatitudini. In tema di Francesco, oggi vivissimo per l’identificazione papale, mi ricordano i modesti, appassionati, ingenui Fioretti.
Il titolo del libretto del numero 1000 della collana è emblematico, La memoria di Elvira (Sellerio editore Palermo, Palermo 2015). Non è detto chi ha curato gli inviti e la raccolta di queste autobiografie, né quale criterio è stato usato nella scelta dei beneficati. Accanto ai nomi di grandi prestigio, primo (solo per ordine? O per beneficenza?) il Camilleri delle grandi fortune, il Piazzese, sempre di area poliziesca, non mancano per fortuna, in ordine,Luciano Canfora, Adriano Sofri e Piero Violante. Si accostano poi in una sequenza misteriosa (per importanza? o canone storico? o secondo il criterio catulliano della variatio?) personaggi di fama ristretta agli addetti ai lavori.
In genere la memoria di un uomo illustre nel campo delle lettere, diciamo di un cattedratico, è esaltata fra studiosi o scrittori attraverso loro contributi creativi, “In omaggio a” o “Miscellanea in onore di”. Qua invece si accampa esclusivamente il ricordo personale, smaccatamente quotidiano e autobiografico, troppo intimo e scandalosamente privo di pudore, nulla a che vedere con lo spirito profondamente altro della “memoria”, la “mneme”, che prelude alla “episteme”. Un madornale equivoco in funzione del ricordo.
Resta da chiedersi se è stato fatto un buon servizio alla “Signora”. Chi ha immaginato, creato e organizzato l’operazione si è assunto una grave responsabilità sia in relazione al metodo panegiristico e vergognosamente encomiastico, sia anche in rapporto alla chiamata nel cerchio magico degli eletti sia nella arbitrarietà delle esclusioni. L’anonimato degli autori della scelta e perfino nel risvolto di copertina deresponsabilizzano e lasciano perplessi. Perché se tutto nacque da input di simpatizzanti ha un significato diverso dalla volontà dei familiari ed eredi, che pur devono aver dato l’avallo per siffatta pubblicazione nella gloriosa collana.
Sono modestamente dell’avviso che la “Signora” non aveva bisogno di questa sviolinata. La sua opera per se stessa testimonia e certifica meriti e rivoluzioni editoriali. Bastano da soli a solenne testimonianza l’esperienza e l’intelligenza di Elvira Sellerio alla riscoperta del pensiero trascorso, della nostra memoria occidentale, in funzione civile e politica, la genialità delle scelte e delle intuizioni di opere che ancora potevano trasformare il mondo, quei contenuti di impegno civile che scorre sotterraneo in tutte le opere riproposte. Elvira partiva da questi presupposti, basta scorrere i titoli della prestigiosa collana dalla quale trae allusioni il titolo del libricino, per individuare strategie e sviluppo e realizzazione. L’editoria “bella” fu compito di Enzo Sellerio, prima ed unica quel particolare blu della copertina. L’editoria creativa e formativa, la biblioteca dell’esistenza e della formazione fu la passione della vita di Elvira. Le sue scelte, sublimi o immancabilmente errate, come qualsiasi intrapresa umana, furono comunque l’esempio di un progetto dell’uomo, quello che lei volle offrire e salvare per le generazioni presenti e future.
Non so quanto potrà restare del suo insegnamento fra i continuatori e nel progetto editoriale, quale eredità sarà preservata come bene prezioso da seguire ed imitare, da proteggere come patrimonio dell’umanità. Problematico prevedere come la sua creatura potrà e saprà preservarsi integra ed originale nelle scelte, salvarsi dalle grinfie dell’editoria nordica, affarista e commerciale. Affarismo diverso da quello del tipografo Angelo Rizzoli della BUR del 1949 che permise a noi squattrinati del dopoguerra di preparare e forgiare sui classici la nostra educazione umana e sentimentale, dal Mondadori, dichiaratamente analfabeta, che si inventò nel 1965 i settimanali tascabili Oscar, i “libri-transistor” secondo Vittorio Sereni, n. 1 Addio alle armi. Oggi l’affare è nelle copertine cartonate in rilievo dei volumoni dei best-seller di letteratura da macero americana, quella prefabbricata nella struttura da format, unico privilegio e qualità essere scritta nella lingua universale e sorretta da montagne di dollari per farne altre montagne.
Un augurio agli eredi, la speranza di una saggia guida che con discrezione ed umiltà prenda posto su quella poltrona.
Io così ho voluto ricordare il suo magistero, per nulla debordando dallo stile della nostalgia e dell’elogio funebre, con la ventiquattresima biografia letteraria in suo onore.

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