martedì 31 marzo 2015

Sempre di te amorosa di Franca Alaimo (Et Nunc Simprimatur)

di Elio Giunta
 
Si prova conforto quando, stanchi di leggere sui giornali cronache quotidiane di agguati ed assassinii, si torna a prendere in mano qualche libro di poesia che si tiene sul tavolo, ancora recente di stampa, e in specie se si tratta di opera di poeta di nostra frequenza, a cui forse si vorrebbe fosse dato più adeguato risalto. Viene così il caso di una rilettura di Sempre di te amorosa di Franca Alaimo, che l’editrice Lieto colle ha pubblicato non molto tempo fa, e di cui invero si è poco parlato e comunque non con l’attenzione che meriterebbe, soprattutto trattandosi di opera di autrice di significativo spessore tra quelle che circolano dell’ultima generazione.
E’ un libro composito, nel senso che si presenta come distinto in due parti, l’una di prosa l’altra di poesia, ma che sono chiaramente conseguenziali l’una all’altra, per cui è la poesia, col suo dato d’ispirazione di fondo, che  ne assorbe in unità essenziale tutte le pagine. Questo dato è la mancanza: una mancanza di ciò che non si è avuto come gli altri, che si è inopinatamente consumato, che rimane come forte desiderio a generare angoscia, quella profonda, segreta angoscia che pesa come cumulo lontano, spinge l’immaginario alla finzione drammatica, e che sbocca nel canto liberatorio in versi.
Intanto la memoria dell’accaduto plausibile. La prima parte del libro costruisce la storia d’una perdita irrimediabile, quella della madre. Nelle brevi e limpide pagine narrative, che sono appunto premessa alla poesia, si sviluppa uno schema psicologico-storico che delinea tale perdita; esso parte dalla ribellione di una giovane all’apparato borghese della famiglia, cui segue la fuga generosa verso la sofferenza altrui e poi verso un amore che da casuale si trasformerà in attrazione fatale, in ragione assoluta di vita, a costo di qualsiasi disagio, di qualsiasi sacrificio, nello squallore imposto prima dalle vicende della guerra e del dopo guerra, e infine dalla condizione di miseria materiale e morale in cui va a cadere. Ma sarà anche un amore che la renderà madre, una madre dolorosa, cioè santificata dall’abnegazione fino alla morte. Ed è questa la madre che ispira i motivi di una poesia di rara passione, con la quale si consuma il tentativo di ritrovare ciò che è mancato e con la quale per prodigio inventivo si esaltano le prerogative, quelle specificamente di madre, che nel generare come atto d’amore assoluto lega senza riserve la sua creatura a sé oltre il concreto della vita, in un’apoteosi di sogno. E’ questa dell’Alaimo una poesia che attinge ad un concetto di maternità che sa persino di mistica religiosa. Già nel titolo quell’aggettivo “amorosa” determina un’ambiguità evocativa che giustifica l’interpretazione di sacralità di quell’essere madre, donatrice e custode d’imperituri affetti, quelli che poi la figlia sentirà perpetuarsi nel dolceamaro presente e sublimarsi per virtù di poesia. Se poi si pone attenzione al susseguirsi dei testi, osservando in particolare i vari incipit e il vario, insistente, appellarsi a lei fonte di diverse visioni come di larva benefica, se ne deduce una specie di litania d’invocazioni amorose che fanno pensare appunto ad un riporto religioso dell’amor filiale o, forse, meglio, ad una specie di realismo mistico assolutamente originale. Leggiamo: Madre dal concepimento in una notte precoce…, Regina dei miei giorni infausti…, visitatrice che ritorna…,Madre che cantava una canzone nella lingua natale…, Madre che venivi al fiume…,madre dalle cantilene piene di sospiri…,Tu che mi passeggi nel cuore…,Tu che sei venuta nel timido sogno….E così via, nell’incalzare di una poesia che insiste a rendere tutte le possibili espressioni di una epopea della maternità, caratterizzata anche, e con rara efficacia, nella sua tangibilità corporea. Anzi proprio per questo la parola dell’Alaimo esorcizza la pena umana e la sublima. C’è un testo, dal titolo O madre bellissima del parto, che è esemplare, anzi lo vorremmo vedere presente come tale in tutte le antologie di poesia contemporanea. Vi si apprezza la straordinaria vivezza rappresentativa di quanto comporta il caso, il parto, appunto, ove il fantasma madre assume tutta la bellezza di ciò che è profondamente vero e umano, in un’inquadratura solare, fiorente, secondo ingredienti pittorici, che poi sappiamo essere gl’ingredienti tipici della poesia di questa nostra fertile autrice. 

sabato 28 marzo 2015

LA BEATA MARIA CRISTINA DI SAVOIA REGINA DELLE DUE SICILIE (1812-1836), Regalità e Santità di Tommaso Romano e Antonino Sala, ISSPE, Palermo 2013, pp. 46.

di Marcello Falletti di Villafalletto

  
Gli Autori si sono avvalsi della collaborazione di altri quali don Andrea di Paola,Umberto Balistreri per le massime, le riflessioni della Beata Maria Cristina; preghiere in suo onore, devozioni e di una poesia in dialetto siciliano di Andrea Aldo Benigno, per presentare la fulgida figura della penultima regina di Napoli, elevata da poco alla gloria degli altari con il titolo di beata.
     Non ci speravamo proprio più di vederla coronata dalla Chiesa, da dopo il decreto di venerabilità, risalente a tanti anni fa (9 luglio 1859), ma finalmente è arrivato anche per questa bella figura di regina il giorno del meritato riconoscimento delle virtù eroiche vissute secondo i dettami del Vangelo di Cristo.
     Ricordo perfettamente di averla ricordata nel mio volume Un salotto per gli amici, dedicato alla SdD Giulia Colbert Falletti di Barolo, dove ho incluso anche una sua lettera indirizzata all’amica marchesa, anche se più anziana di lei, nella quale si rivolgeva confidenzialmente come ad una vera “mamma”, confidando anche in qualche suggerimento e consiglio, dei quali Giulia era prodiga e ben disponibile.
     Il volume ripercorre il cammino terreno di questa principessa sabauda, andata sposa al re Ferdinando II di Borbone Re delle Due Sicilie, il 21 novembre 1832, beatificata il 25 gennaio u.s., essendo stato pubblicato proprio per questo significativo evento. Il Di Paola, in poche pagine analizza il valore della santità per i cristiani; mentre Tommaso Romano riattraversa tutte le vicende storiche che unirono casa Savoia ai Borboni, poco prima di essere cacciati dal loro regno da quelli che erano anche loro parenti. Questa singolare unione viene vissuta mediante le singolari tappe della vita della Reginella Santa, nata il 14 settembre 1812 da Vittorio Emanuele I e Maria Teresa d’Austria-Este, morta a Napoli il 31 gennaio 1836, e si conclude con l’elenco di tutti i personaggi sabaudi, ascritti dalla Chiesa tra i venerabili e i beati; esaltandone quelle spiccate qualità, come ebbe modo di ben evidenziare S. S. Pio XII in occasione della visita ai Sovrani d’Italia il 28 dicembre 1939: «…plurisecolare è lo spirito cattolico della Dinastia Sabauda, così gloriosa per la sua corona di Santi e di Beati…», che per molti sono poco note o sconosciute. Antonio Sala condensa in poche pagine i ventiquattro anni di questa diamantina figura di principessa e sovrana attraversando poi le tappe dei processi canonici che hanno portato direttamente alla beatificazione del gennaio scorso.
     Il volume nella bella veste editoriale si completa di numerose immagini a colori, di preghiere e della poesia dialettale del Benigno alla quale abbiamo già fatto riferimento.

SOGNI INTINTI NEL CUORE, poesie di Ines Scarparolo, Carta e Penna Editore, Torino, 2014, pp. 55, € 8,00.

di Marcello Falletti di Villafalletto 
 
   
La brava scrittrice vicentina ci ha da tempo abituati alla pubblicazione di qualche volumetto di liriche – tengo a evidenziare che il significato di “volumetto” vuol solamente dire: piccolo libro solamente –; questa volta ci ha sorpresi veramente anche con brevi racconti e per aver verseggiato in vernacolo.
     Ines ha scritto a pagina 53: “La poesia è l’anima dell’uomo”. Io vorrei aggiungere: “la poesia è la coscienza dell’umanità”; che rivela, attraverso i pensieri più reconditi, la sua natura, l’intimo, il personale, che altrimenti non paleserebbe neanche a se stessa.
     «Ho addolcito/ ogni istante del giorno/ con carezze di sole leggero/ con i baci di petali rosa/ con parole cantate dal vento./ E ora/ che è giunto il momento/ di andare/ potrò continuare/ da sola il cammino,/ custode/ di emozioni incantate/ che il tuo amore/ mi ha saputo donare». L’Autore non usa parole complesse, complicate, macchinose retoriche, tanto meno dubbiose suggestioni interpretative; si mostra così com’è, con candore e semplicità che colpiscono immediatamente. Non vi è, nella Scarparolo, una affannosa ricerca di atteggiamenti straordinari, tanto da giocare d’effetto sulla sensibilità del lettore; usa una naturale spontaneità che colpisce immediatamente, arrivando immediatamente a destinazione, vale a dire: dal cuore e alla mente. Questo è il grande valore di poter e voler scrivere: farlo per uno scopo semplice, personale che si dilata automaticamente, senza alcuna forzatura, senza alcuna macchinazione o voglia di essere e di fare. Guarda caso confessa, ingenuamente: «Sono una nonna extra-large che in cuore sente ancora la gioia, anzi “il boresso” degli anni della giovinezza. Amo scrivere perché con la scrittura, e specialmente con la poesia, posso far fiorire le mie giornate e renderle profumate come un prato a primavera, anche se spesso le nubi offuscano l’azzurro del cielo e le fragranze di fiori e frutti svaniscono troppo presto nell’aria». Se nello scrivere, ma più ancora nei versi poetici può conservare la freschezza dell’eterna giovinezza, allora dobbiamo riconoscere che questa qualità, continua ad essere energia viva, trascendente e generosa che la conduce direttamente a mete elevate, dove tutti vorrebbero salire.
     «M’inebria/ un profumo di rose/ stasera./ Dietro alle case si spengono/ i bagliori del sole che muore/ e io sento qualcosa che preme/ che punge nel cuore./ Mamma, dimmi:/ Perché il tuo ricordo/ non riesce a bastarmi/ stasera?/ Questo profumo di rose/ che si spande nell’aria/ si fa ancora più forte/ e ti immagino, mamma, in un viale/ di boccioli in fiore/ avanzare piano piano/ mandarmi un bacino/ farmi “ciao” con la mano…/». Sentimenti, pensieri elevati che proiettano verso il verticale di un orizzonte invalicabile dove possiamo scoprire che quest’esistenza è qualcosa di più di un semplice passaggio, ma l’inizio di una promessa che si realizza dal momento che si avverte. Questo lo riscontriamo nello scrivere di Ines: «Un compendio di bellezza interiore, dunque, o, se preferiamo, un ulteriore salto in avanti di una scrittrice genuina e dal cuore sincero che sa riempire con abbondanza i giorni del suo passaggio sulla Terra.», come ha ottimamente scritto Fulvio Castellani al termine della Prefazione.
     Il bel volume, dove le poesie in vernacolo hanno la traduzione a fronte con suoi ottimi disegni, si legge d’un fiato, ma appena terminato si sente il desiderio di tornare a iniziare a rileggerlo.
     Grazie Ines per questo ulteriore e meraviglioso dono!

domenica 22 marzo 2015

Numero Zero (Umberto Eco) - Bompiani

di Carmelo Fucarino

Eco e l'Italia dei numeri zero

Lo zero la fa da protagonista in questi anni, nominalmente e metaforicamente. Si potrebbe dire minimalismo da solidificazione dell’acqua pura alla pressione di una atmosfera. Perché alla fine i decimali che si sentono snocciolare spasmodicamente e infinite volte durante la giornata sono quelli che hanno lo zero punto nelle statistiche di ogni tipo. Sì, punto, perché siamo divenuti di stretto linguaggio anglosassone e nelle sequenze decimali la virgola è diventata obsoleta, quasi segno di arretratezza culturale. Non stupisce che fanciulle colte e mature signore, ma anche tanto pseudo-culturame da quotidiano regionale si bei con il muso rotondo del “punto di domanda”, traduzione orecchiata e raffazzonata dell’americano question mark. Schifando con orrore il secolare nostro “punto interrogativo” (fr. point d’interrogation), registrato ancora nell’obsoleta Treccani di glorie fasciste. Certamente la moda infierisce con questi tempi magri negli indicatori economico-finanziari, l’onnipresente Borsa italiana, denominata di Milano, e l’immancabile Wall Street i cui indici oscillano su questi infinitesimi di zero. E per essere in linea con il progresso anche l’EXPO ha voluto marchiare di sublime un suo Padiglione Zero, proprio ad entrata, tanto per acclimatarsi, ospite l’Organizzazione delle Nazioni Unite che di questi tempi in quanto a zero la fa da padrona in un mondo di guerre globalizzate in cui non si sa più chi ammazza chi, tutti contro tutti per la goduria dei fabbricanti di armi. Nello stesso Zero si mostra la Best Practice Area, presenti ben 15 Best Sustainable Development Practices on Food Security, sigla all’americana BSDP, cosa da non crederci e da restare basiti. Perché in quanto a baraccone di corte dei miracoli e di record demenziali l’EXPO non ha nulla a che invidiare alle meraviglie in progress di Las Vegas. Sì, perché qui sono ben 145 nazioni coalizzate (94% popolazione mondiale) e in gara a chi la spara più grossa. Si è posto un limite all’altezza. Di questi tempi non sarebbe stato certo che la vincessero gli Americani. Ma in quanto a lusso, ad arruolamento di supergeni dell’architettura da shock anafilattico, la gara è stata forsennata con vittoria dei paesi emergenti, si fa per dire, se uno di essi è la Cina. Con questa esposizione lussuosa del food senza qualifiche si sarebbe potuto sfamare mezzo mondo di sciagurati. Ma così vanno le cose, perché i ricchi studiano le sfide del futuro, come affamare altri miliardi di uomini zero con l’alta complicità del FMI. Io ti presto il denaro e ti distruggo con gli interessi da usura che prelevo dalle materie prime che pago a cifre da liquidazione. È la pratica del terrorismo del crack e delle tasse sui cittadini affamati dell’Universo.
Anche nei logo di intrattenimenti di massa lo Zero è divenuto simbolo di catalogazione, addirittura di principio di un nuovissimo corso. Di ere preistoriche i tempi in cui Renato Fiacchini, volle divenire in arte il Renato Zero. Più di recente Santoro ha voluto ritornare con il suo talk show politico ad un AnnoZero. Così nel web l’evoluzione di qualcosa di digitale ha come codice 2.0.
Il bello di questo infuriare di Zero è che ha pure travalicato i sublimi confini della letteratura e c’è chi non si contenta di uno solo, ma spara a raffica come kalashnikov di moda Zero Zero Zero, «il grande ritorno di Roberto Saviano sette anni dopo Gomorra». Vuol convincerci con sicumera letteraria dal suo prezioso (milionario) sito che tutti siamo cocainomani “cocainati”. Ora passi per l’infermiera di suo nonno, per il suo portiere, per il suo sindaco e per la prof di suo figlio, ma non si permetta di concludere anche «Se non è tuo padre o tua madre, se non è tuo fratello, allora è tuo figlio. Se non è tuo figlio, è il tuo capoufficio». Pena l’accusa di falso e diffamazione. Peggio per lui che ha questa famiglia e questi circostanti.
Questo per giungere anche al nostro Eco internazionale che ha voluto riproporci l’elaborazione e lo scherzo crudele con la marca della strategia del fango e il giallo con omicidio di un Numero Zero.
Se ad un comune mortale è concesso parlare male di un dio delle classifiche e delle copie vendute… In questi giorni ferve la questione del valore letterario delle Cinquanta sfumature di grigio (Fifty Shades of Grey) di Erika Leonard, dettasi E.L. James (nome d’arte o nome de plume, di penna o di piuma? O nickname?), in concomitanza con l’uscita del film che di scandaloso ha solo la nullità. Perché in questi casi, nell’industria della cultura, come in quella della Nutella e dei vari aggeggi per donna, conta la quantità dei forzati degli acquisti.
Nel dubbio che Eco, senza ombra di metafora, volesse veramente far qualcosa da numero zero, senza decimali. A proposito: le operazioni con zero danno sempre zero. E i sottomultipli di zero? Certo, il superlativo UE, come i grandi idoli ha avuto sui media di questi giorni che si tuffano nella ghiotta occasione, segni straripanti, di grande amore, ma anche di grande astio. Non dico odio, perché questo può essere tributato solo all’odiatrice di professione Fallaci, pace all’anima sua.
Da parte mia vorrei esprimere qualche riflessioncella, sine ira et studio, per dirla con Tacito nell’incipit dei suoi Annales.
È passata una vita da quando nel lontanissimo 1980 entusiasmò la platea del nostro Ateneo a Lettere con la gustosa conversazione su Sesto Empirico o la preistoria della semeiotica. Mi stupì e affascinò il suo mescolare la difficoltà, talvolta l’astrusità da acido gastrico dei testi del filosofo scettico con lo humour, allora agli inizi e per me assai nuovo, del balbettante Woody Allen. Da poco era passato nelle sale cinematografiche il Manhattan del 1979 con le sue donne straordinarie, la Diane Keaton e la Meryl Streep. Fu quella la spinta per avvicinarmi alla sua ricerca e a questa disciplina con la nuova edizione modificata del suo libricino fresco di stampa, piccolo, ma denso di scienza, dal titolo categorico e fulminante, Segno.
La rivelazione mondiale delle sue qualità di romanziere con Il nome della rosa fu rassodata dal film che passò in tutti i cinema e viene ogni tanto riproposto spesso nei canali televisivi. La mia anteprima fu per caso l’edizione francese. Perciò quella parlata di Salvatore nel latino tedesco mi strabiliò e mi rimandò alla mia tesi di laurea e alla pronunzia latina e greca proposta da Erasmo e Reuchlin. Allora non lessi della polemica sul titolo e dello strafalcione definito refuso. Ma comunque mi apparve un Medioevo da film di costume, oleografico e nero. Non sapevo del suo Medioevo assemblato su quel fantasioso autunno categorizzato da Huizinga, né dello scambio tra Roma e Rosa dell’ora celebre De contemptu mundi di Bernardo di Cluny.
Sulle ali di questa immensa fortuna, scomparve l’Eco studioso esclusivo, d’altronde noto soltanto ai pochi per il suo esaustivo Trattato di semiotica generale del 1975, ai più per la provocazione dell’articolo del 1961 Fenomenologia di Mike Bongiorno (ora in Diario minimo). Eppure la sua saggistica potrebbe riempire una ben capiente libreria, con i suoi 86 titoli. Ignota forse anche ai bambini e alle loro mamme l’ampia letteratura per l’infanzia, fino a I promessi sposi per bambini. Fu il Medioevo, fino al picaro Baudolino dei tempi del Barbarossa. Meno coinvolsero gli altri esperimenti di giallistica, con il trapasso ai giorni d’oggi, tra esoterismo e magia con Il pendolo di Foucault del 1988 e con l’altra incursione di Il cimitero di Praga del 2010 nel mistero attraverso l’invenzione dei Protocolli di Sion.
Dunque il complottismo seriale che oggi giunge a quest’ultima balla ciclopica sulla sopravvivenza di Mussolini, vivo nell’America latina dei profughi nazisti. Vivo come il leggendario Federico II della fantasia dei ghibellini fanatici degli Hohenstaufen.
Perché di questo alla fine si tratta nella sua ultima fatica, si fa per dire, poca cosa rispetto alle ricerche erudite dei precedenti titoli. Una bella serie, raccolta da riviste e programmi televisivi seriali, con la pratica del taglia e incolla, della quale si poteva incaricare la segretaria.
Tutto questo fottio di dati e scandali e bugie giornalistiche e mediatiche per spiegare la spietata spudoratezza della stampa. Un bel pamphlet con poca spesa e tanto gaudio per il popolo lettore che ha diritto a rimemorare i fasti e i nefasti di Italia.
Comunque e sempre era dominata la ricostruzione storica, un certo tempo antico che dava spazio alla elaborazione, soprattutto fra noi comuni lettori, ignoranti di Medioevo, di monaci e cavalieri.
L’operazione odierna presentava i suoi grossi rischi, i pericoli insormontabili dell’inganno del presente, almeno per una certa generazione che era nata ed era stata traumatizzata dai fatti di mezzo secolo e più. Non c’era alcuno spazio alla fantasia. Basta sciorinare tutti i fatti della stampa quotidiana dal ’45 ad oggi, con qualche appunto e una visione di qualche notiziario televisivo per riempire 200 pagine di banalità, di annunzi di stampa e tv. Con l’alibi che voleva essere una satira alla stampa e alla tv, ai media corruttori e spargitori di fango. Ed è stata un’operazione facilissima fare satira della cattiva stampa compilando un elenco melenso e noioso della cattiva stampa. Sempre secondo la legge della narrativa che non si può narrare una storia felice, ma bisogna condirla con tragedie, assassini e cataclismi, oggi con gli tsunami, allora memorabili la serie Airport, Terremoti e Cicloni.
Su un impianto assai banale, ma oggi di moda, la forma diaristica e in prima persona, quasi una autobiografia, si sviluppa questa sequela di notizie, luoghi comuni delle chiacchiere delle news e dei talk show. Si vorrebbe rendere avvincente la sequenza di noiose banalità insufflando il solito pepe della narrativa moderna, l’omicidio da scoprire, la suspense del giallo. Altro giallo e di altro spessore erano le misteriose morti dei lettori della falsa poetica aristotelica nel solitario castello-convento. Qua uno squinternato giornalista assieme alla serie di sfigati e morti di fame pretende di avvincere con il suo segreto e le sue reticenze. Fino alla balla finale che si vuol spacciare per la grande epocale trovata.
Troppo comune e banale è la cronaca di questi eventi mediatici, troppo abusata. E c’è tutto e di tutto, come si suol dire mediaticamente, dal “detto ciò” al “premesso che”, nulla escluso. Per dare un’idea della noia dei falsi e dei complotti: l’immancabile revisionismo dell’Olocausto e il dubbio dell’allunaggio e la fusione fredda, per risalire indietro alla fola sulla morte di Napoleone, e poi il caso Mattei e papa Luciani, ma anche il Woytila e i lupi grigi. Poi la paranoia classificatoria da format di Quattroruote, una sequela di schede tecniche da meccanico pazzo, indeciso di automobili (da p. 43 a p.47), così asfissiante da sentire la necessità di saltare avanti. L’analisi semantica degli annunzi matrimoniali e delle loro interpretazioni, e la sventagliata di curiosità, l’insulsaggine del goliardismo dei giochi di parole, stile Bartezzaghi, la palinodia della smentita e tanti luoghi comuni, la trita demoplutogiudeocrazia e il muro sotto Firenze, l’inquinamento e i testicoli dei bambini, la serie degli ordini di Malta, oh, la bellezza nostalgica dei Navigli, “non siamo a Napoli”, e la cerbiata e i caprioletti del Cantico (cita il troppo umano Grossman?) e i casini e i froci, le tavole rotonde e i telefonini, l’ira giornalistica spalmata e attribuita pure al papa e il far tendenza, la lega degli onesti disonesti e l’autoprotezionismo mediatico. E la schedatura di tutti i casi di cronaca bianca e nera: il Trivulzio, Falcone e l’indignazione, i Salesiani e il Papa, Gladio, piazza Fontana e Gelli e De Lorenzo e i forestali. Non poteva mancare l’orrido da noir con il nomen della Chiesa di San Bernardino alle Ossa, solo ossa di lebbrosi e il ben chiuso putridarium, un luogo di relax per un palermitano che conduce gli amici in transito turistico ad una visitina degli impalati dei Cappuccini. Certamente oscena e stomachevole l’autopsia macabra del Duce, per chiudere con una diatriba su Liszt e Satie e Chopin.
Ma è pur sempre questa una sintesi lacunosa. La realtà quotidiana forse riuscirebbe più avvincente dell’insipido elenco di brutture mediatiche che Eco ha voluto propinarci con la scusa di un mancato ed interrotto dossieraggio. Perché alla fine ci bastano tante quotidiane brutture, senza che Eco perda tempo a volercene fare l’elenco. Come poteva immaginare le decapitazioni con scimitarra di uomini inginocchiati in tute rosse, il falò purificatorio di montagne di vivi. Sì, le guerre medioevali tra uomini in divisa, di fronte in mezzo ad un biondo campo di grano, vuoi mettere con un salutare bombardamento a tappeto su una città milionaria. Almeno abbiamo abolito i lanciafiamme, più pulite le morti con invisibili gas senza odore. È altra soddisfazione trucidare dall’alto migliaia di persone all’ingrosso, meglio se con gli asettici droni. La cavalleria era morta con la sgangherata risata irridente di Cervantes sullo stralunato don Chisciotte e il suo maldestro Sancio Panza, errante benefattore per la dolce Dulcinea.

mercoledì 18 marzo 2015

VITTORIO AMEDEO DI SAVOIA RE DI SICILIA, di Tommaso Romano (ISSPE)

di Marcello Falletti di Villafalletto

Con questo pregevole testo l’Autore ci offre uno spaccato singolare del breve regno siciliano del duca sabaudo Vittorio Amedeo di Savoia, proprio nel Trecentesimo anniversario dell’incoronazione avvenuta nel lontano 1713.
     «Un breve luminoso periodo (11 ottobre 1713 – 2 settembre 1720), stretto tra la plurisecolare influenza dell’Impero spagnolo e il ritorno degli Austriaci in Sicilia; dinasticamente troppo anticipatore rispetto alla svolta risorgimentale guidata da Casa Savoia e con obbiettivi in parte di segno opposto. A differenza di Vittorio Emanuele  che nell’ordinale II si riagganciava alla storia pregressa della Casa. Vittorio Amedeo – come sottolinea giustamente Tommaso Romano – non si sarebbe mai firmato nei documenti ufficiali come II, e ciò facendo intendeva rimarcare l’acquisita sicilianità. Tra i suoi obbiettivi era di rinnovare i fasti del Regno normanno, il periodo eroico che si era concluso con  la scomparsa di Federico III d’Aragona (25 giugno 1337), II di Sicilia (incoronato re il 25 marzo 1296). Allora i siciliani si batterono per il loro re contro forze militarmente ben maggiori e contro la Chiesa, divenuta matrigna verso l’Isola che non accettava di rinnegare il Vespro (1282). Ora il contesto interno e internazionale era molto cambiato e la tradizionale distanza del viceré dal popolo aveva reso questo, se non indifferente, almeno distratto e impreparato per cogliere il messaggio nuovo che veniva da Amedeo; tanto meno ci sarebbe stato il tempo per memorizzarlo e tramandarlo. Sobrio nell’abbigliamento e nei modi, era fornito di un sicuro intuito nel valutare i collaboratori, nonché pragmatico nell’affrontare i problemi. Tutto il sistema di governo dell’Isola era scivolato verso l’arretratezza e i commerci avevano perduto il ruolo che l’avevano resa ricca. Il nuovo re era intenzionato a ristabilire gli scambi con l’esterno e soprattutto ad ammodernare le istituzioni pubbliche.», scrive Bordonali in apertura dell’Introduzione.
     Il saggio ben puntualizza e sicuramente riscopre un evento, poco conosciuto, della plurisecolare storia sabauda. Dimenticanza questa che appartiene anche agli ambienti scolastici, più concentrati su argomenti politici e politicizzati, sempre meno attenti e tanto meno disponibili a trattare i veri aspetti della storia della nostra penisola; lasciando nell’ignoranza più totale i nostri giovani studenti.
     Vittorio Amedeo II, figlio di Vittorio Emanuele II di Savoia e di Giovanna Battista Maria di Savoia-Nemours, nacque il 14 maggio 1666, divenne re di Sicilia nel 1713, nel 1720 riacquistò il trono piemontese, divenendo il primo re sabaudo, regnando fino all’abdicazione, in favore del figlio Carlo Emanuele III, il 3 settembre del 1730, morendo poi il 30 ottobre 1732. Aveva sposato, nel 1684, Anna d’Orléans. Dopo la pace di Utrecht, 11 aprile 1713, riprese dalla Francia tutti i possedimenti alpini e la Spagna gli concesse l’isola di Sicilia in regno. Un evento non straordinario ma insolito per una dinastia che, più tardi, sarebbe assurta fino a diventare sovrana dell’intera Italia.
     L’Autore con la qualificata competenza analizza in modo veramente magistrale, non solamente l’arrivo e l’incoronazione di Vittorio Amedeo ma delinea, agevolmente, il programma che, questo sovrano, avrebbe fortemente sviluppato in quell’isola, della quale si sentiva più che monarca già figlio; legandosi indissolubilmente a quella terra nella quale aveva pensato di vivere il resto dei suoi giorni. Cosa che avvenne ugualmente, anche se per un breve periodo, pur restando nel cuore dei siciliani che l’apprezzarono sia come monarca, sia come uomo.
     Il volume presentandosi in veste editoriale elegante, corredata di innumerevoli riproduzioni di incisioni e stampe del tempo, si offre ad una facile e invitante lettura che ci sentiamo di consigliare non solamente a coloro che si sentono legati in qualche modo alla Sicilia o alla storia, ma anche per chi realmente volesse approfondire un argomento di notevole interesse, che sembrerebbe scontato e dimenticato; ma che in verità non lo è affatto.
     Per questo ringraziamo e vogliamo essere riconoscenti a Tommaso Romano che ci ha offerto questa opportunità e per l’abilità di averci consegnato una lettura altamente qualificata.

ESAGERATAMENTE TI AMO! di Simonetta Teglia, (Cromografica Roma S.r.l.)

di Marcello Falletti di Villafalletto

Simonetta Teglia, figlia del nostro Acc. Cav. Dr. Claudio, dopo aver esordito con ottime poesie, che hanno riscosso positivi consensi di lettura ma anche guadagnato dignitosi riconoscimenti in vari concorsi, tra i quali il “Danilo Masini”, è passata al suo primo romanzo, definito “breve”.
L’Autore forte della sua esperienza in campo pedagogico e di studi socio-psicologici, affronta il problema affettivo generazionale con un linguaggio moderno, “alla portata di tutti”, ma anche grammaticalmente e letterariamente valido. Affidando, a queste poche pagine, tutti i sentimenti contrastanti che attraversano un adolescente che va verso l’età matura, ma anche le contraddizioni e gli evidenti contrasti e i problemi che la società tende a minimizzare o mettere sotto silenzio.
Damiano e Giada sono i protagonisti di un’avvincente storia d’amore. Quella che potrebbe vivere una semplice coppia giovane di questi nostri anni notevolmente turbolenti. Anche se il periodo adolescenziale, quello dei primi amori, è da sempre vissuto in modo agitato e burrascoso. I due ragazzi sono attraversati, oserei dire travolti, da problemi, che per gli adulti sembrano insensati capricci adolescenziali, difficili alla comprensione di persone che vivono ormai lontano da quel tempo, che per tutti, è e dovrebbe essere il più spensierato e semplice; ma che non lo è se si percepisce, osservandolo attentamente dall’angolazione giusta.
 Assaporiamone, seppur brevemente, alcuni brani: «Ora diciassettenni si ritrovano così: Gianluca è il classico maschio per cui tutte le ragazzine escono di senno, ancor prima di entrare in contatto con lui. Tra l’altro le ragazze neanche gli interessano realmente; a lui piace collezionarle, attirarle a sé, giocare a fare l’uomo. In poche parole: illuderle. Però sta ancora cercando un metodo efficace per scrollarsele di dosso quando decide di porre fine al gioco.
Damiano invece è il tipico ragazzo simpatico che sa far ridere le femmine, che finiscono per vederlo solo come un amico. Comincia però ad essere stanco di questo ruolo. È giunta in lui la voglia di vivere qualcosa al di sopra di un semplice affetto. Vorrebbe provare quell’ebbrezza del sentimento d’amore che si vede nei film». Ecco, in poche righe, delineati due caratteri estremamente diversi, che rispecchiano chiaramente sia la diversità di ognuno, sia lo stato di maturazione interiore che nasce e affonda radici dentro e nella formazione personale, intimistica di ogni essere. Simonetta riesce già a identificarne gli estremi, le differenze che si proietteranno nel futuro di ciascheduno dei giovani soggetti. Eppure, attraversando un percorso di maturazione, obbligatorio, si può giungere quasi immediatamente a comprendere quanto possa essere difficile accettare o corrompere il proprio destino.
Damiano e Giada vivono una storia d’amore intensa, marcata, senza condizioni, né tempo, che ciascuno vorrebbe durasse eternamente: “per sempre”; per dirla con l’espressione degli adolescenti, condizionandola, ritagliandola perfettamente addosso solamente per loro. Ma la realtà non è sempre così! E il nostro Autore sa usare a perfezione il colpo di scena finale, che il lettore non si aspetta, iniziando la lettura: «Giada  è distesa sul letto della Clinica e dorme. Ha delle ventose attaccate sul petto e le uniche cose che si muovono in quella stanza grigia sono le goccioline della sua flebo che cadono costantemente l’una dietro l’altra. Damiano esce dalla stanza a prendere una boccata d’aria. Ma non c’è aria là dentro; è un posto che la toglie. Il Dottore dice che non ci sono speranze, il tumore l’ha devastata. L’unica cura è restarle accanto fino alla fine. Damiano vorrebbe spaccare tutto. Come fa a vedere un pezzo del suo cuore riverso su quel letto, incapace di ribellarsi ad un male cosi grande?!
Soffre tantissimo, lui più di tutti. Forse anche più di lei perché Giada è rassegnata al suo destino lui invece no, non si rassegna».
Sarei tentato di commentare tutte le 78 pagine, ma so che non sarebbe giusto farlo; in quanto il segreto di una buona presentazione o recensione è lasciare sospeso e interessato il lettore. Penso di esserci riuscito!
Plaudo a Simonetta, perché ha saputo trasfondere i sentimenti, l’intimo sentire, già esplicato, in passato, con i versi poetici; aggiungendovi oggi quell’esperienza e maturazione che dimostra di aver raggiunto in così breve tempo. Grazie Simonetta per questa gradita lezione! 

lunedì 16 marzo 2015

La verità di Vanni Teodorani

di Lino Di Stefano  

Il recente libro di Vanni Teodorani – ‘Quaderno’ 1945-1946 (Ed. Stilgraf. Cesena, 2014) – dovrebbe essere letto da tutti gli Italiani, in particolare da quelli nati dopo la fine del secondo conflitto mondiale, perché, in tale maniera, essi comprenderebbero le intere implicazioni che portarono l’Italia alla sconfitta al termine del menzionato scontro. Nato, nel 1916, a Torino, ma romagnolo purosangue, l’Autore del lavoro di cui ci stiamo occupando fu un esponente politico importante sia durante il regime, sia nel dopoguerra, periodo in cui cercò di orientare il MSI in direzione di una linea nazionale-cattolica.
   Giornalista, Direttore di diverse testate – ‘Asso di Bastoni’ e ‘Rivista Romana’, per fare qualche esempio - ed eminente uomo di cultura, come si evince dalla lettura dell’intero libro, Teodorani fu anche legato al Capo del fascismo essendosi unito in nozze con la figlia di Arnaldo, fratello di Mussolini, mettendo in evidenza tutte le sue qualità di soldato, di scrittore e di diplomatico anche se, in quest’ultima veste, non gli arrise la fortuna per una serie di circostanze avverse indipendenti dalla sua volontà e dai suoi evidenti meriti. Il tutto fortificato, altresì, dall’esperienza delle patrie galere.
   Curato e presentato dai figli Anna e Pio e introdotto da Giuseppe Parlato, l’attraente ‘Diario’ del conte si fa oltremodo apprezzare non solo per la scioltezza della forma e la puntualità delle argomentazioni, ma anche per la grande dose di ‘veridicità, presente dalla prima all’ultima pagina dato, a detta dei Presentatori, che “richiamare tradizioni ed eventi lontani può contribuire a raddrizzare vecchie e nuove storture, e soprattutto ad impostare un generale ripensamento ideale della nostra società e della nostra storia”.
   E la prima impressione, suffragata da tutto il volume, che si prova al cospetto di questa testimonianza - imprescindibile per capire la storia d’Italia più recente – consiste, appunto, nell’osservazione che tale “documento umano”, parole dell’Autore, possiede la presunzione di dire tutta la verità, come, tra l’altro, alla fine del volume, egli  ribadisce e cioè che  “è tutto vero”.
 Il lavoro teodoriano, dopo tante pagine confidenziali, corroborate dal supporto di intensi e dolorosi ricordi, vissuti in prima persona, ma sempre nell’ossequio dei fatti nudi e crudi, al momento opportuno entra “in medias res” mercé reminiscenze non solo di carattere familiare, bensì pure di ordine storiografico vero e proprio in quanto esso passa in rassegna gli eventi più vicini all’Autore; non esclusi gli uomini politici più in vista di quel tempo.
   Ed sebbene, talvolta, l’Autore indulga a qualche affermazione come quella secondo cui “tutto quest’odio che c’è tra comunisti e fascisti è per me una riprova della stretta parentela che c’è fra noi”,  resta pur vero che per lui “i veri italiani che possono trattare da pari a pari con i generali russi, i laburisti inglesi, i nazional socialisti tedeschi sono i fascisti rivoluzionari nei quali ho sempre avuto l’onore di militare”. Del resto i fascisti hanno sempre cercato di venire ad accordi con la Russia”. E, non a caso, egli continua, “l’ultimo leninista italiano è apparso a Piazzale Loreto vicino a Mussolini”. Cioè Bombacci.
   Ora, è vero, d’accordo con Teodorani che “extrema tanguntur”, ma è altrettanto certo che non sempre i comunisti, nell’immediato dopoguerra – al momento della vendetta – utilizzarono la menzionata parentela in maniera solidale. Tutt’altro! Ad onta di qualche fugace opportunismo togliattiano, i cosiddetti ‘giorni dell’ira’, furono tremendi, considerata l’immane strage di ben 300.000 fascisti, numero riportato dallo stesso Teodorani.
 E, in merito, l’Autore non ha nessuna tenerezza per gli americani i quali - considerati “i più umani soldati del mondo” - sganciarono bombe atomiche a dimostrazione che essi iniziarono la guerra da statunitensi e la terminarono da tedeschi. Su tale osservazione non sembrano esserci dubbi. Anche in occasione della ricerca di Mussolini, gli stessi si fecero giocare dai servizi segreti di Sua Maestà Britannica, a conferma del loro dilettantismo e del loro infantilismo.
   Il volume, ricchissimo di riferimenti storici e culturali, colpisce, in modo duro, non solo i voltagabbana che il 25 aprile si presentarono con una sedicente verginità, ma anche i cosiddetti ‘fuoriusciti’, non senza un singolare elogio per Mussolini considerato come “uno degli uomini più buoni che siano mai esistiti e, caso mai, un po’ troppo buono tanto da diventare debole”; talmente debole, così continua, da accorgersi solo il 25 luglio “che un re di corona, nato re, figlio di re, poteva macchiare il suo focolare con atti di fellonia”.
   Notevole, inoltre, la stima per Croce e per Gentile; quest’ultimo, parole di Teodorani, “Presidente dell’Accademia d’Italia, e degno successore di Marconi e d’Annunzio”, pagò “col martirio la sua lealtà, la sua fede e soprattutto il suo devoto amore per Mussolini”. Anche nei riguardi di Churchill, l’Autore del libro si esprime in termini positivi, segnatamente laddove egli scrive che lo statista inglese “ha sempre stimato Mussolini da quel che risulta, e credo che lo stimi di più dopo le sue recenti disavventure elettorali. Bravo Winnie!”.
   Nessun avvenimento, remoto o recente, e nessun personaggio storico – a lui attuale o dell’antichità - sfugge all’occhio vigile di Vanni Teodorani; egli discute, ad esempio, di Nitti e di Giolitti dimostrando comprensione per il primo e stima per il secondo - definito “grande tecnico della psicologia italiana” - sebbene ripudiati dal fascismo “per rispetto al nostro santone numero uno l’adorabile poeta Gabriele che morto a tempo e ricongiunto ai fratelli arcangeli si può dire che oggi è beato”.
   Un’altra persona stimata, non a torto, dall’Autore, è Ferruccio Parri definito bravo, onesto e retto per i meriti acquisiti per la sua moderazione mentre non può sottrarsi ad un franco giudizio nei riguardi di Mussolini reo, secondo lui, in buona fede, di aver creduto che “gli italiani erano tutti ritornati antichi romani” quando, invece, gli stessi sono e restano, in fondo, un po’ traditori.
 E sempre a proposito di Mussolini, nel ricordare la comprensione evidenziata da Nenni alla notizia dello scempio di Piazzale Loreto, Teodorani ha espressioni di biasimo nei confronti di Alcide De Gasperi il quale, durante una riunione, a Roma, a Palazzo dei Marescialli, di fronte alla tragica morte di Mussolini, fu il solo a commentare:”Meno male! Così non parla!”. Verso la fine del suo lavoro, l’Autore ribadisce la propria professione di fede politica proclamando: “sono fascista, perché sono socialista” e liberale, non senza aggiungere, significativamente: “mi piacciono i comunisti”.
   Teodorani prende posizione anche intorno alla “vexata questio” dell’eccidio delle Fosse Ardeatine addebitato ai fascisti, precisando, altresì, di aver “conquistato una nuova concezione della giustizia” visto che essa non esiste e dato che è meglio “ripiegare sulla pietà”. L’Autore, ricostruisce, in Appendice, le complesse vicende, vissute in prima persona, tese a salvare la vita di Mussolini vittima, purtroppo, delle divergenze fra gli Alleati, ponendo anche l’accento, infine, sulla volontà omicida di Togliatti espressa in un sedicente discorso del 26 aprile, ma riportato dall’’Unità’ solo il 7 maggio!
 Un altro episodio riferito, dall’Autore, concerne una curiosa richiesta di scarpe del gen. Castellano agli Alleati; questi non sapeva che la Wehrmacht, da due anni, camminava con milioni di paia sottratte ai magazzini del Regio Esercito di cui “a quanto pare lo Stato Maggiore Generale ignorava l’esistenza e consistenza”! Chiudono il considerevole volume, alcune poesie – in cui è ognora presente la patria - tratte da alcuni volumi dell’Autore: evidentemente poeta oltreché scrittore.
   Che dire, in conclusione, della bella fatica di Vanni Teodorani? Che essa rimane un documento fondamentale per comprendere, nella loro interezza, le intricate vicende di un periodo storico ancora tutto da scoprire e da studiare prima di pronunciare sentenze definitive di fronte al tribunale della storia. Dopo settant’anni dalla fine della guerra non è possibile, infatti, emettere verdetti con obbiettività visto, inoltre, che la storia la fanno i vincitori.
   Il libro di Teodorani, ad ogni modo, colma una parte delle attuali lacune storiografiche rimanendo una testimonianza considerevole per procedere sulla strada della verità.

Presentazione del libro "Il grano, l'ulivo e l'ogliastro"


Alfonso Giordano narratore

di Tommaso Romano

Da quasi un trentennio ho il privilegio del rapporto intellettuale intessuto di stima e ammirazione con Alfonso Giordano uomo, magistrato, memorialista, studioso e docente di diritto, poeta.
Uomo di qualità e di alto spessore morale, non scevro – fortunatamente – da senso dell’humor e da una certa sua filosofia della vita, che me lo hanno sempre fatto apparire come esponente di una solida tradizione umanistica, ereditata anche da un ethos familiare di primordine, eppure autonomo, originale. Le due prove poetiche di Alfonso Giordano, rappresentano ora, - ai miei occhi di lettore di tante pagine… - una sorte di eccellente preparazione a questo libro di narrazioni dal titolo forse ammiccante, data l’alta esperienza e professionalità dell’Autore.
Tuttavia, ben altra saporosa sorpresa mi ha donato la lettura partecipe del libro: mi sono reso, quasi subito, conto che la materia a cui mi accostavo, era di grande pregio, scintillante di un linguaggio forbito, elegante, a volte ricercato nei vocaboli desueti, eppure cosi ben incastonati nel testo scorrevole, sempre sorvegliato e al contempo tessuto laboriosamente, come un tappeto-preghiera d’Oriente. Certo, la conoscenza e la biografia dell’Autore mi hanno portato ai testi narrativi, di vario spessore, di giuristi e avvocati: da Ugo Betti a Giuseppe Guido Lo Schiavo, da Giuseppe Maggiore e Luigi Maniscalco Basile. Trascurando, forse, i tanti contemporanei che, forti di apparati mediatici ed editoriali, inseguono e forse interpretano taluni “segni dei tempi”, in realtà non proprio paradigmatici. Su tutti, però, oltre a Pirandello di cui si dirà, è balzata in me la figura e l’opera di Gesualdo Bufalino – con cui ho avuto la fortuna dell’incontro e di scambi epistolari – uno scrittore rivelatosi in età matura, con talune barocche assonanze con il nostro Giordano.
Rivelazione di uno scrittore autentico è stata questa di Giordano, capace già, con i presenti racconti, di stare a fianco di altri scrittori ben consacrati al tempo, più che alla cronaca della repubblica delle lettere. Un merito che voglio sottolineare anche per l’intrapresa editoriale che segna i buoni libri dell’editore Carlo Saladino.
Gli otto racconti, con un epilogo finale, mostrano subito la rara capacità di un possesso pieno del canone linguistico classico, senza per questo essere fuori dalla controversia lessicale odierna e tuttavia superandola con un stile che sa imporsi, con gradevole discrezione, fornendo al lettore il sigillo della chiara leggibilità, con ironia e leggerezza.
Pagine terse dove si incunea la grande cultura di Alfonso Giordano che non manca di citare Proust e Kierkegaard ed anche, il per me nodale, Jean Anouilh, l’autore non dimenticato de “I pesci rossi”. Accanto a questi vorrei inoltre idealmente ricordare e accomunare Jonesco e Camus e fra gli italiani Tozzi e Ardengo Soffici.
La lezione di Pirandello, prima ricordato, è appunto lezione per Alfonso Giordano, non tanto e non solo un ripercorrerne i passi, gli stilemi.
Già nel breve racconto d’esordio “La signora grande” in una sintesi espressiva che molte parentele ha con l’elzeviro, che il nostro Autore pratica come genere, con ottimi esiti peraltro (vedi il recente testo “Incontrai la Patria” che gli ho pubblicato su «Il Sigillo on line») Alfonso Giordano ci narra di una vegliarda sopravvissuta al marito seppellito già in vita tra i suoi libri, alla figlia vedova “morta in tempo per lasciarle il rammarico di esserle sopravvissuta”, capace di ricapitolare agiatezza e ricchezza. La signora grande sul letto di morte, non provoca che ingordigia ai figli che come estranei e belve affamate se ne spartiscono già i lasciti quando un segno, un rumore ne fa echeggiare ancora la presenza-assenza, il timore.
“L’onomastico” è il titolo del racconto che segue, ed è riconoscimento di una solitudine profonda del protagonista che si esalta nella impressionistica pennellata letteraria e sentimentale dice l’Autore stesso, della proprietaria della pensione che ospita colui a cui si nega perfino un augurio. Ecco l’immagine della “porporeggiante avvenenza, in tutta la sua succosa procacità”, come una fetta d’anguria siciliana. Ecco il paradosso tutto pirandelliano che ritroviamo anche ne “La vendetta di Teofilo Folengo”, dove fra goffaggini presunte, frequentando l’alta società viene fuori l’orgoglio leonino di chi sa - oltre Moravia e Marcuse – (già oggi dimenticati) del Baldus e dell’Orlandino, mettendo a tacere così lo snobismo, la noia colmi d’ignoranza.
La citazione in epigrafe di Pascal “L’ultimo passo della ragione è di riconoscere che ci sono un’infinità di cose che la sorpassano” ben apre «L’altro di quando nevica» uno dei racconti più riusciti per invenzione e per sottile indagine psicologica, del libro di Giordano. Anche in questo caso sogno e forze telluriche si evidenziano in un doppio che si manifesta come caso e, a volte, come destino. Scrive Giordano: “bastava che in un particolare momento decisivo della vostra vita, voi aveste scelto d’imboccare una via anziché un’altra perché voi diventaste un altro, totalmente diverso da quello che siete”. E ciò vale per il carattere, le opinioni, i tabù di tutto un modo di vivere in uno specifico ambiente che determina l’emergere dell’altro che è in noi, in potenza e a volte in atto.
Le illusioni che metaforicamente, ma non troppo, emergono anche ne “La carta” ove fantasmi e lusinghe si mischiano, fino al rintocco della coscienza.
“Storia di un pelo” è una narrazione simbolicamente assai riuscita, del pelo bianco e lungo che si manifesta in Matteo sull’avambraccio e che può cagionare, se estirpato, dolore e morte. Fra rimpianti e sorde gelosie si architetta così un folle crimine, in una spirale incalzante di inganni, capaci di tenere avvinto il lettore, in una sorta di fiaba-apologo che sfocia nell’atto gratuito, nello svelamento di sé, a quella che agli altri appare follia, nell’”obliterazione della memoria”, nell’oblio e nella noncuranza dell’atto veritativo.
“Il ritorno in Sicilia”, con sottotitolo vivere è viaggiare, riporta ai luoghi nostri a Palermo, al tema dell’assenza e a quello del ritorno, con mordaci bozzetti che richiamano vizi e virtù dell’isolamondo, fra descrizioni del dopoguerra difficile e i begli schizzi di musicale liricità, “per una Sicilia primaverile”: “Il cielo di puro cobalto era sgombro di nuvole ed il mare era tutto un incendio di atomi luminosi palpitanti come strane lucciole d’oro. La città che mi veniva incontro, primo lembo di Sicilia dopo tanti anni, di fronte, sembrava voluttuosamente affondare le braccia nel mare che le lambiva con l’amorosità di una carezza”. Oltre le vicende e le trame, basterebbe la frase prima ricordata per darci la sensazione, la certezza di essere veramente in presenza di uno scrittore autentico.
Nelle “ore rutilanti”, nel “torrente delle rimembranze” si ci trova soli nel ritorno alla terra, alla ricerca di un senso non sempre decifrabile nella metamorfosi e negli interrogativi di cui va e poi ritorna, imperiosamente. Rifacendo il periplo dell’esistenza, comunque essa sia, anche nella molteplicità degli stati in cui si connota l’umano. Ritornare all’origine può essere quindi un’opzione, anche riscoprendo il linguaggio della terra madre.
Giungiamo così al lungo racconto che dà il titolo al libro “Un giullare alla corte della mafia”. Spunti autobiografici pur presenti, non impediscono all’Autore di guardare senza stereotipi a persone che pur restando minori nello scenario tragico e assai violento della mafia, vanno indagate oltre i codici. È il caso di Salvatore Cupani di Corso dei Mille che entra di soppiatto nel mondo della cosiddetta onorata società e, dopo una serie di vicende, che lasciamo alla lettura, si pente e decide di collaborare, senza però trarre beneficio se non la beffa e la conseguenza di vivere come un barbone, fino alla resa, alla morte liberatrice.
Sullo sfondo, gli anni Ottanta, l’omicidio Dalla Chiesa, il Maxi-processo di cui, come noto, fu Presidente coraggioso e degno il dottor Alfonso Giordano, che è un uomo esemplare che la storia di Sicilia può già annoverare.
Il libro si conclude con un racconto che in realtà è una sorta di esame di coscienza, rispetto proprio ai personaggi che hanno abitato il libro e che ora s’incontrano davanti al cospetto dell’Autore quasi a chiedergli una ragione, un motivo di quella vita che gli è stata data.
In cerca d’Autore, si potrebbe dire, pirandellianamente o ricordando come egli fa, Flaubert.
E ancora, però, il guizzo di Alfonso Giordano plasma una visione del mondo, della vita, meno casuale di un ritratto e più in consonanza con ciò che in effetti lega, anche senza avvertirlo, le maschere di protagonisti e comprimari dell’esistenza in una sorta di gioco a nascondere.
La rivolta degli “inconsueti” personaggi, oltre l’angoscia che è in realtà un vero e proprio incubo, apre al finale thriller che lascia ulteriori porte aperte.
Al narratore, di questi racconti, che un sommo critico quale è Giorgio Barberi Squarotti definisce “curiosi e via, via fantasiosi e giocosi”, bisogna conclusivamente aggiungere il pensoso umanista che nel racconto “Il ritorno in Sicilia”, cosi scrive: “Quale segreta, insondabile molla fa sì che le nostre vite ruotino, splendono e si spengano poi, come la luce di certe stelle? E chi assegna i tempi, i modi della nostra permanenza su questa terra? A quale misterioso disegno esse sono destinate? Lo sapremo mai, avremo un giorno le logiche risposte a questi inquietanti interrogativi o tutto ciò resterà un’irrisione tragica, uno scherzo atroce?”.
Su questi interrogativi, che tutti ci riguardano, basiamo la speranza di poter leggere il romanzo che Alfonso Giordano, sicuramente presto ci donerà.

Presentazione "Segmenti memoriali" di Lo Cicero ad Agrigento

Nell'ambito delle iniziative culturali del Museo Archeologico Regionale P. Griffo di Agrigento, promosse dalla Direttrice Gabriella Costantino e realizzate con il trenta per cento de gli entroiti dei biglietti venduti grazie alla convezione con Comune di Agrigento, sarà presentato al pubblico, mercoledì 18 marzo alle ore 18.00, presso la sala Conferenze del museo, l'evento di chiusura delle celebrazioni degli ottant'anni del maestro Stefano Lo Cicero – poeta dialettale, autore lirico, pittore e scultore – esponente della cultura siciliana del secondo Novecento.
La manifestazione prevede due iniziative congiunte: la presentazione della sua ultima raccolta di poesie intitolata Segmenti memoriali, edita nel 2014 dall’Associazione Thule Cultura di Palermo, con prefazione di Salvatore Lo Bue e postfazione di Tommaso Romano. L’opera editoriale, che raccoglie un’antologia di liriche legate principalmente alle memorie autobiografiche, all’amore, all’arte e ai “miti eterni” in Sicilia, sarà presentato dal critico letterario Tommaso Romano e dallo scrittore agrigentino Nino Agnello. Saranno, inoltre, esposte al pubblico alcune opere che illustrano il volume: una serie di dipinti materici ispirati ai temi della mitologia classica, che l'autore definisce “cromostrutture”, votate a un vivace sperimentalismo tecnico che apre a un nuovo linguaggio espressivo.
A seguire avrà luogo il finissage della mostra Morfologie del Mito. Metalli e marmi, curata da Giuseppe Cipolla, docente dell’Accademia di Belle Arti di Palermo.
 Si tratta di  una iniziativa culturale rivolte a tematiche afferenti anche alla dimensione delle collezioni del museo, permettendo cosi di incentivare percorsi didattico-museali che sappiano far dialogare il mondo antico con le espressioni artistiche contemporanee.
 
Gabriella Costantino
Direttrice del Museo Archeologico Regionale P. Griffo di Agrigento

mercoledì 11 marzo 2015

Dante Maffia "La casa dei falconi" - Format

di Cinzia Demi
 
I luoghi di Dante Maffia sembrano fatti di incontri e convivialità, di amicizia sincera e condivisioni, a partire dalla sua casa calabrese, con la cucina e il balcone, che ha ospitato molti anni fra i più grandi letterati non solo italiani.” (Benassi) Ed è proprio così. Un poeta e una casa: una casa dove si respira l’aria della nostra letteratura novecentesca, oltre a quella dello splendido mare su cui si affaccia.
Dante Maffia è nato a Roseto Capo Spulico (Cosenza) il 17 gennaio 1946. Il padre, Salvatore, piccolo commerciante del paese, scelse il nome del quarto figlio (dopo Luigi, Antonio e Filomena) augurandosi che diventasse uno scrittore. La madre, Rosina Tucci, fu colpita da una grave malattia che la costrinse sulla sedia a rotelle. Fin da ragazzo Dante è stato affascinato dai libri e dalle “pommedìje”( racconti orali) ascoltate avidamente attorno al caminetto. Racconta lui stesso in una poesia scritta a tredici anni: “Vado la sera/ di casa in casa/ ad ascoltare le fiabe/ che mi raccontano i vecchi /  al focolare/ come un mendico/ che ha bisogno di un pezzo di pane”. Trasferitosi a Roma ha esercitato vari mestieri per sopravvivere e frequentare l’Università. Si è laureato con una tesi sulla Presenza del Verga nella narrativa calabrese. Si è dedicato all’insegnamento e alla ricerca nella cattedra di Letteratura Italiana dell’Università di Salerno diretta da Luigi Reina. Natura avida e curiosa, Maffìa ha ingaggiato con la lettura e con la scrittura un vero e proprio duello cercando di scandagliare, oltre che le opere degli scrittori italiani, anche quelle di altri paesi. Dotato di una prodigiosa memoria (forse non è casuale che come suo riferimento principale abbia scelto Campanella) riesce puntualmente a sbalordire per i dotti e appropriati riferimenti durante le sue frequenti conferenze tenute da anni nelle maggiori università del mondo. Il viaggio è il punto nodale delle sue indagini di scrittore. È poeta, narratore, saggista, critico d’arte e fondatore di riviste prestigiose come “Il Policordo”, “Poetica” e “Polimnia”. Intensa la sua attività critica sulle maggiori riviste italiane tra cui “Nuova Antologia”, “Il Veltro”, “Il Belli”, “Idea”, “Poiesis”, “Fermenti”, “Poesia”, “Microprovincia”, “Hebenon”, “La Fiera Letteraria”, “Il Giornale di Calabria”, “Il Mattino”, “La Voce”, “Nuovi Argomenti”, “Il Cittadino”, “La Nazione”, “Paese Sera”, “Lunarionuovo”, “Misure Critiche”, “La Rassegna Salentina”, “Otto/Novecento”. È stato corrispondente de “La Nacion” di Buenos Aires; per anni ha curato la rubrica dei libri per RAI 2 ed è redattore degli “Studi di Italianistica nell’Africa Australe”. Come poeta fu segnalato, agli esordi, da Aldo Palazzeschi che ha firmato la prefazione al suo primo volume, e da Leonardo Sciascia che con Dario Bellezza ritiene Maffìa “uno dei più felici poeti dell’Italia moderna”. Ha tradotto alcuni poeti dialettali calabresi per Garzanti e per Mondadori. Il Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, nel 2004 lo ha insignito di Medaglia d’Oro per i suoi meriti culturali, insieme a Uto Ughi, Raffaele La Capria, Piero Angela, Giuseppe Tornatore, Ermanno Olmi e Achille Bonito Oliva. Oltre ad Aldo Palazzeschi, hanno prefato i suoi libri Donato Valli, Enzo Mandruzzato, Dario Bellezza, Mario Sansone, Carmelo Mezzasalma, Mario Luzi, Giulio Ferroni, Marco Rossi, Giacinto Spagnoletti, Angelo Stella, Giuseppe Pontiggia, Mario Specchio, Claudio Magris, Nelo Risi, Alberto Granese, Dacia Maraini, Gian Luigi Nespoli, Silvana Folliero, Tommaso Romano, Carmelo Vera Saura, Tullio De Mauro, Natalino Sapegno, Norberto Bobbio, Luigi Reina, Alberto Bevilacqua, Alberto Moravia, Alberto Granese, Corrado Calabrò, Gianpaolo Rugarli, Alberto Abbuonandi, Remo Bodei, Sergio Givone, Giuliano Manacorda. Numerose le traduzioni delle sue opere all’estero: in rumeno, inglese, francese, spagnolo, russo, tedesco, portoghese, slovacco, macedone, svedese, sloveno, bulgaro, greco, ungherese. Dante Maffìa ha scritto molto, sempre più convinto, come ha ripetuto in più d’una occasione, che gli scrittori non si possono né si devono giudicare dalla quantità delle loro pagine: “Quando a Liala un giornalista domandò perché non fosse riuscita a creare il capolavoro, la narratrice sorridendo fece notare che non era stata colpa della fretta e dei cento e più romanzi scritti, ma semplicemente perché non ne era capace. Infatti altri, come Dostoievskij , Balzac o Goethe, che di libri ne hanno scritto più di lei, hanno prodotto dei capolavori nonostante la marea delle loro pagine.”. Per una bibliografia ampia, ma non completa, si rimanda ai testi curati da Luigi Troccoli, Omaggio a Dante Maffìa , Castrovillari, 1978; da Gennaro Mercogliano, L’Odissea nel mistero, Catania, 1984; da Rocco Salerno, Antico e nuovo nella poesia di Maffìa, Roma, 1986; da Franco Di Carlo, Gli opposti segni, Lecce, 1986; da Luigi Reina, La poesia come azione e dizione, Roma, 1988; da Giuseppe De Marco, Mappa dei poeti del Sud, Napoli, 1989; da Vincenzo Petrone, Lessico del dialetto di Maffìa, Rossano, 1989; e dal recente studio complessivo di Antonio Iacopetta. Per i libri editi ha ricevuto i premi: “Martina Franca”, “Palmi”, “Alfonso Gatto”, “Tarquinia- Cardarelli”, “Calliope”, “Città di Firenze”, “Città di Venezia”, “Trastevere”, “Pino d’Oro”, “Brutium”, “Rhegium Julii”, “Acireale”, “Lentini”, “Lanciano”, “Città di Cariati”, “Circe-Sabaudia”, “Montale”, “Un ponte per l’Europa”, “Vanvitelli”, “Insieme nell’Arte”, “Marineo”, “Anna Borra”, “Contini-Bonacossi”, “D’Alessandro”, “Anco Marzio”, “Cirò Marina”, “Palmi”, “Viareggio”, “Stresa”. Per ulteriori notizie sulle sue attività e pubblicazioni si rimanda al sito dell’autore: http://www.dantemaffia.com/DANTE%20MAFFIA.htm
Recentemente sulla sua opera è stato pubblicato dalla Casa Editrice Puntoacapo il libro “La casa dei falconi”. Il volume curato dall’ottimo Luca Benassi (link Altritaliani) contiene poesie che vanno dal 1974 al 2014. Di questo volume ci occuperemo in questo articolo di Missione Poesia.
Conosco Dante Maffia da diversi anni ed è nata tra di noi un’immediata simpatia già dal primo incontro. Di natura aperta e solare Maffia è dotato di profonda cultura letteraria, di un’intelligenza veloce e intuitiva nonché di una fenomenale memoria: tutte doti che gli consentono di risultare gradevolissimo interlocutore, e che, se unite a una buona dose di simpatia, ne fanno anche un abile affabulatore, nel senso più bello e positivo del termine. La sua vita, come si legge nella sua biografia, è costellata di successi, di incontri, di studio e ricerca, di viaggi, di insegnamenti, di ascolto dei grandi maestri del ‘900 ai quali egli stesso si avvia certo ad affiancarsi. Di lui ho letto molti libri sia di narrativa che di poesia - non tutti perché la sua produzione è sterminata e oltremodo continua - e devo dire che l’antologia, oggetto dell’articolo, arriva a proposito per completare una visione d’insieme sull’affascinante opera poetica di questo autore del quale consiglio vivamente la conoscenza.
La casa dei falconi
Poesie dal 1974 al 2014 (a cura di Luca Benassi)

Così come Luca Benassi inizia a parlare dell’opera di Maffia partendo dal suo soggiorno nella casa di Roseto Capo Spulico, paese di nascita dell’autore, situato nel cuore dell’alto Ionio cosentino, impregnato di un’affascinante mescolanza di tratti storici a partire dall’origine latina del suo nome "rosetum" che deriva dalla diffusione della coltura delle rose in epoca greco-romana, utilizzate per riempire i guanciali delle principesse sibarite, e confronta l’ambiente della dimora “maffiana” con le particolarità dell’autore, allo stesso modo voglio partire da lì, essendo stata anch’io ospite di quella stessa casa, in un periodo di breve soggiorno a Roseto. Dice Benassi: “[…] I luoghi di Dante Maffia sembrano fatti di incontri e convivialità, di amicizia sincera e condivisioni, a partire dalla sua casa calabrese, con la cucina e il balcone, che ha ospitato molti anni fra i più grandi letterati non solo italiani.” Ed è proprio così. E’ una casa dove si respira l’aria della nostra letteratura novecentesca, oltre a quella dello splendido mare su cui si affaccia. Lo dimostrano i pacchi di corrispondenze con i più grandi autori: Montale, Valeri, Primo Levi, Sereni, Caproni, Luzi… solo per citare qualche nome; i grandi quadri di artisti frequentati; le enormi librerie stracariche di libri e quell’atmosfera ricreata certe volte, a sprazzi nelle sue stesse poesie. Così se Benassi dice che l’obiettivo dell’antologia è quello di “[…]condurre il lettore nelle stanze di Maffia”, e ci racconta di quanto l’autore abbia un rapporto con i libri “che non è confinato alla sfida dell’intellettuale e del critico militante [ma riguarda piuttosto] un continuo corpo a corpo con la parola, [diventando] una tensione febbricitante e notturna verso la carta che coinvolge il poeta con una fisicità bulimica che ricorda Autodafé di Elias Canetti. […]” anch’io non posso che trovarmi in pieno accordo con queste considerazioni che rispecchiano, tra l’altro, anche lo spirito del suo libro “La donna che parlava ai libri”, che ho recensito un po’ di tempo fa, nel quale viene presentato un lavoro di metaletteratura, dove la bravura dell’autore sta nel proporre racconti che parlano di storie narrate in altri libri: lavoro dal quale emerge in tutta la sua irruenza la passione e l’amore per la cultura letteraria di cui egli stesso è infine protagonista.
Presentare qui l’opera poetica di Maffia è, dunque, per me un onore, oltre che un estremo piacere. Accodarmi ai tanti che hanno parlato di lui e, non certo all’ultimo, anche se appena arrivato in ordine di tempo, lavoro antologico di Benassi, mi fa pensare di essere partecipe di un mondo letterario ancora vivo e vegeto, a dispetto dei tanti detrattori, di un mondo che vuole imporre la sua voce, che vuole raccontare, anche finalmente attraverso la poesia: il vissuto, il vivere, la visione e tutto quanto fa parte - e a sempre fatto parte - dell’universo poetico in cui ci muoviamo, spesso senza neanche accorgerci di farlo. L’excursus dell’antologia porta ad incontrare ben quarant’anni di produzione poetica che va quindi dagli esordi fino ai giorni nostri, in un susseguirsi di testi scelti dalle varie pubblicazioni e con alcune note critiche finali, prese dalle prefazioni illustri e più significative che l’autore ha ricevuto e inserito nei libri stessi. Qui, per ovvie ragioni, faremo solo un breve sunto di alcuni passaggi dell’opera sottolineando le note critiche e le suggestioni dei testi.
Da: “Il leone non mangia l’erba” ( Remo Crocetti Editore, Roma 1974)
La pietà degli alberi
Il cielo voluttuoso
s’arruffa, si distende.
Sbadigliano i fiori
in fissità distratte.
L’orizzonte racchiude
vaste trasparenze.
Oltrepassa i confini la sera
e mite la luce
dirada le cavità,
i finti arcobaleni.
Poi la pietà degli alberi si apre
in parole di vecchie confidenze.
Il testo fa parte della prima raccolta dell’autore che porta la prefazione, nientedimeno che, di Aldo Palazzeschi. Qui, il prefatore parla di rinascita passionale e umana della regione Calabria della quale non può fare a meno di notare l’irruenza e le doti letterarie del giovane Maffia a cui riconosce, se pure con  movenze ancora adolescenziali, una folgorante umanità. Io, in relazione a questo testo che vi propongo, ho particolarmente apprezzato il distico finale che mi sembra quasi una dichiarazione di poetica, distico dove l’immagine della pietà degli alberi – che ricorda simbolicamente gli ulivi o le palme cristologiche – si apre in parole – le parole della poesia – che sono vecchie confidenti – ovvero fanno parte della sua vita e il poeta, se pure ancora giovane, le frequenta assiduamente tanto da sentirle amiche -.

Da: Passeggiate romane (Lorenzo Capone Editore, Cavallino di Lecce 1979)
Notturno
Il vento ha bussato
ed io l’accompagno al Gianicolo.
Ditemi, pietre, parlate voi alti palazzi!
Roma è questo immenso silenzio,
questi anni che asciugano
sui fili di plastica nei cortili?
Andiamo fino all’alba. Al Tritone
mangio i cornetti appena sfornati
e fumo addossato alla fontana.
Il vento raccoglie
gli ultimi residui della notte
e si adombra nei vicoli.
Per a raccolta che contiene questo testo  Dario Bellezza, poeta e amico fraterno di Maffia e a lui “legato dagli affanni di una stessa generazione”, ha curato la postfazione. Di lui Bellezza dice che: “[…] appartiene, strenuamente, alla famiglia dei felici pochi, ai quali, essendo poeti, bisogna fare festa ogni qual volta decidano di mostrarsi, di uscire in pubblico.” E della sua poesia dice: “[…] che è sospesa fra canto e dedizione al sottile ragionamento d’amore per le creature e per le cose […]” e ancora, pensando al poeta che più gli somiglia, egli parla di Sandro Penna, per il quale dice che Maffia “[…] deve avere un culto speciale, se ancora adesso, in queste Passeggiate romane, si sente la voglia di mimarlo, o di rubargli infantilmente qualche semiverso [o di somigliargli in] quel sospiroso guardare alle realtà del creato […]”. Ecco sì, concordo con Bellezza nel pensare a Maffia come colui che guarda sospiroso la realtà del creato perché l’ho ascoltato più volte nei suoi racconti e guardandolo negli occhi - cerulei, chiarissimi - ho spesso pensato che voli di mille uccelli migrassero in quello sguardo sul mondo, che si traduce in sguardo poetico. Proprio come nelle visioni di quel Notturno sopra riportato, dove appare esemplare la rappresentazione di un tempo romano che sfiora il silenzio, forse l’impossibilità di esprimersi per l’inezia intellettuale dei più – quanto di attuale c’è in questi versi – mentre la vita scorre comunque: un cornetto, il fumare alla fontana, il vento che passa e le domande del poeta che restano gettate nel nulla, perché i palazzi e le pietre non potranno rispondergli.
Da: Possibili errori, (Fermenti, Roma 2000)
Escluso
Le querce raccontano di nani
che la notte insidiano le stelle.
Tu prova a stringermi le mani
per strapparmi dal sortilegio:
vedrai sulla mia faccia il disincanto
ma non saprai della mia morte nulla
e il sordo mormorio del dolore
ti svelerà i segreti del canto
della pietra della paura dell’amore.
Ed è di Mario Luzi la prefazione al libro che contiene questo testo. Siamo già negli anni duemila e Luzi afferma: “Ho visto crescere negli anni le ambizioni ideative e l’impegno compositivo di Dante Maffia, di prova in prova […]”. Mentre, per la sua produzione, specie per quella dialettale, egli si domanda se: “Siamo all’interno di una nuova, affrancata stagione stilistica che si va profilando? [se] Siamo di fronte alla nascita di un nuovo modo?” domande certo importanti di fronte ai testi di un poeta, da parte di un altro poeta di tale levatura. Ma ancora Luzi dice, parlando di questo libro: “Questa volta è l’energia dirompente e liberatrice di un amore, o meglio di una esaltata, ossessiva, allucinante identità di figura sogno e fantasmi che scuote le fondamenta e insieme rigenera la grammatica della sensibilità, le connessioni e l’ordine della scrittura […]”. Ed è vero:  la scrittura si è fatta largo fra le idee e la natura, fra l’irruenza passionale giovanile e la riflessione, nel territorio del dicibile e dell’indicibile per arrivare ad essere solo se stessa, protagonista del foglio. Non tanto per ragioni pratiche quanto per dimensioni conquistate con la disciplina applicata alla ricerca poetica, il verso sembra più essenziale e lo scavo più profondo: nel dolore del poeta non può stare che racchiuso anche il dolore del mondo capaci di svelare i segreti del canto/della pietra della paura dell’amore.
Da: La Biblioteca di Alessandria (Edizioni Lepisma, Roma 2003)
Lemmonio Minasica
Il fuoco entrò col pretesto di purificare.
Come una lama che taglia fibre e pietre
e s’alimenta di sua luce interna
mi guardò negli occhi con un sorriso
che prometteva la pienezza eterna.
Soltanto le opere tristi, mi dissi,
saranno eleminate, non avere dubbi,
soltanto le opere prive di vita, le altre
saranno il perenne fluire
della vita nelle parole. Io gli ho creduto,
fui molto ingenuo e permisi che entrasse
a far scempio dei testi. In fondo ero contento
che i libri nati male morissero per sempre.
Era il sicario, invece, del poeta Ta-ku,
più ricco di cento imperatori.
Gli aveva ordinato d’azzerare la Storia
con promesse allettanti: una ragazza di Sicàla
e la supremazia sull’Acqua.
Così anche le mie opere sono perite
e la loro cenere non si sa dove sia.
Ma se mi sarà permesso, prima o poi
scriverò un poema sul Fuoco, questo figlio
di cane ingordo, gli farò vomitare
tutte le storie di cui s’è nutrito.
La biblioteca di Alessandria rappresenta uno dei capi saldi dell’opera di Maffia dal momento che, come dice Giuliano Manacorda nella prefazione, egli affronta una difficile battaglia, riprendendo: “[…] a tema e quasi a modello la grecità più classica e più tragica, quella che ebbe nell’incendio della Biblioteca di Alessandria il momento più culturalmente drammatico”. Le confessioni immaginarie che l’autore propone, le testimonianza drammatiche di poeti e scrittori che hanno visto distrutte le loro opere sono così attualizzate in modo da farcele sentire tanto vere quanto più limpide e dolenti sono le parole usate nel restituircele nella loro quanto mai “possibile verità biografica”. Un lavoro, aggiungo io, nel quale la poesia entra a tutto tondo nel sentimento di sofferenza dei suoi protagonisti tanto da andar a colmare le lacune di un resoconto storiografico che, per quanto sia, non può mai entrare nell’animo dei protagonisti della vicenda. Purtroppo il “Fuoco” non potrà mai più “vomitare” il capitale perduto… anche oggi, l’ignoranza e la crudeltà, distruggono opere culturali il cui valore è perso per sempre… il mondo guarda e ancora nessun poeta ha il coraggio di parlarne… forse un giorno, chissà.
Da: Il corpo della parola (LietoColle, Faloppio 2006)
Me ne sto dentro la parola per riemergere
Me ne sto dentro la parola per riemergere
intatto e puro sul fare del giorno
che mi vedrà solitario camminare
in un giardino d’illusioni ma pur sempre vivo
di sillabe che nutrono suoni
d’arpe mai uditi. La parola avrà cura
d’insinuarsi nella carne teneramente
col garbo e la violenza di una donna
vissuta e ammaliante e costruirà la bara
su cui navigare all’infinito.
La poesia è un viaggio inconsueto
che esce ed entra nel dubbio della morte,
una radura di dissensi che si fa luce
e si consuma al primo chiarore dell’alba.
La raccolta Il corpo della parola ci dice Sergio Givone nella nota introduttiva, ci pone molte domande in particolare ci chiede, chiedendoselo il poeta stesso, come sia possibile che certe cose accadano e se si possa far qualcosa per impedirlo: anche il solo pensare a quella cosa sembra tuttavia avere con sé un alone di non senso, un ché di fittizio. L’insieme è complesso e si porta dietro quel sentimento d’impotenza, quella dimensione tipica dell’uomo dei nostri giorni. Anche le parole diventano “tessuto di improbabili colloqui con gli oggetti (assurdi, inutili) che ci circondano?” forse, ma “da lì potrebbe essere che venga un messaggio” perché “la fatica del dire, per quanto sconfortante, è doverosa, ‘ necessaria”. Aggiunge Givone che il poeta forse non sa perché scrive ma che se lo sapesse non lo farebbe, egli “ha in mente di esplorare il negativo, affondare le parole nel silenzio, disfare il tessuto del linguaggio…per ricomporre una trama possibile”. Nel testo sopra proposto, aggiungo io, è forse riscontrabile una ulteriore e più precisa dichiarazione di poetica dell’autore maturo e certo del proprio impegno: il fare poesia, riflettendo sulla poesia, lo stare dentro le parole, il ritrovarsi in una dimensione dove La poesia è un viaggio inconsueto/che esce ed entra nel dubbio della morte, rendono davvero  l’idea della consapevolezza e della responsabilità che chi scrive sente nel suo continuo confrontarsi con qualcosa di più grande, del suo voler scrivere per sopravvivere ad un altrove sconosciuto con cui bisogna fare i conti.
Da: Il poeta e la farfalla. Le più belle poesie d’amore (Edizioni Lepisma, Roma 2014)
Mi piace quando ti distrai
Ti vedo nel tuo giardino
curare le piante
con le tue mani che sospirano
come la tua anima e cercano
la maniera migliore
per farle sentire felici.
Ti vedo e penso
che faccio parte ormai
anch’io di quel fare,
e che sono nei pensieri
che vanno e vengono
da evanescenti fulgori e lampi
che fanno crescere
la vastità dei cieli
e danno al tuo portamento
la giusta misura. E mi piace
quando ti distrai e mi chiami
al posto d’un lilium
o d’un malvone.
E, concludiamo questo lungo percorso, eppure brevissimo in confronto all’opera dell’autore, con l’esame dell’ultimo lavoro che mette al centro del discorso poetico la dimensione dell’amore. Si tratta, dice Benassi “di un canzoniere, articolato in cinque sezioni” dove Maffia  riesce “a elevare un canto di amore senza retorica e senza stereotipi; ciò avviene in quanto il poeta entra dentro i luoghi comuni, senza rifiutarli, ma per scardinarli e rivoltarli dall’interno”. E’ vero, è difficile parlare d’amore senza sconfinare nel già detto o nel già sentito ma. la capacità dell’autore sta anche in questo: in quel cogliere l’attimo in cui la donna amata si distrae e lo chiama col nome di un fiore. E’ lì che lo sguardo e l’attenzione del poeta, sempre vigile, di insinua e ci rende il momento eterno e universale.
Concludo, davvero, con le parole finali del commento introduttivo all’antologia da parte di Luca Benassi, sull’autore: “Maffia è autore poliedrico [nelle tante tipologie di lavori] non vi è una prevalenza. Vi sono però una sensualità e una profonda schiettezza di dettato che di certo derivano da una costante pratica della scrittura poetica, la quale si è intensificata e allo stesso tempo addensata negli ultimissimi anni.”. In questa sua pratica rientra anche la recente produzione poematica che, come ho più volte detto nelle mie recensioni, è una strada stilistica percorsa ormai da molti autori e che conferma la necessità e il desiderio di un ritorno ad una poesia narrativa che racconti i fatti della vita e che sia accessibile a tutti.

VITTORIO IN VOLO, a cura di Vito Mauro, Prefazione di Tommaso Romano e presentazione di Maria Patrizia Allotta, Ed. Thule Cultura, Palermo 2012, pp. 110, € 15,00.

di Marcello Falletti di Villafalletto
È il curatore Vito Mauro che spiega il volume, dove la fanno da padrone meravigliose immagini fotografiche affiancate da pensieri che aiutano a ricordare un amico scomparso prematuramente e in una maniera che non avremmo voluto. «È la storia di Vittorio Alesi, per molti Vito,  a cui vogliamo regalare le tracce della memoria le quali danno importanza alla parola scritta che mai si cancella né sbiadisce, a quella parola capace anche di mantenere un’amicizia, “dopo” e per “sempre”. Infatti, accogliere e raccogliere i ricordi e le testimonianze della sua breve esistenza serve semplicemente a farlo conoscere ancor più a chi in vita ha sperimentato la sua modestia, la sua umiltà, nonché le sue virtù che i più sconoscono del tutto. Certamente a questo libro, non è riservato l’esclusivo compito di dare splendore alle qualità di Vito o di consolare l’infelice Concetta, ma piuttosto l’incarico di custodire una testimonianza in una terra dove tutto passa e dove la memoria stessa è ben presto sepolta in un eterno oblio. Vito, invece, merita di essere ricordato perché continua a volare sempre più in alto, sopra gli arcobaleni, e oramai, senza impedimenti libra in un luogo dove la virtù riceve la propria ricompensa».
     Non è facile fare questo, proprio perché l’uomo moderno tende con facilità a dimenticare più in fretta che in passato, in quanto bombardato e assillato da tanto, troppo; quel tanto e quel troppo che sovente vorremmo che fosse poco e forse niente! 
     Di un poeta continuiamo a leggere e meditare le poesie; di un cantante, ascoltare le canzoni ecc.; di Vittorio Alesi continuiamo a osservare le meravigliose immagini fotografiche che ha lasciato e che suscitano in noi evanescenti emozioni, quelle stesse che molti amici sono riusciti a condensare in questo piacevole volume. Certi che non sarà solamente una memoria fuggevole ma costante, ogni volta che il nostro sguardo rivivrà quello che i suoi occhi hanno inquadrato e tutto quello che hanno fermato, quasi in previsione del nostro futuro; dove anche lui continuerà ad essere presente.

DIARIO DI UN PELLEGRINO A PIEDI DA PALERMO A LOURDES di Giovanni Azzara, a cura di Carlo Fabbri, Anscarichae Domus, Accademia Collegio de' Nobili, Firenze 2013

di Marcello Falletti di Villafalletto

Si tratta della terza ristampa di questo avventuroso viaggio verso l’ignoto che l’Autore riuscì a compiere dal 15 maggio al 10 agosto del 1959, partendo da Palermo per adempiere ad un voto singolare verso la Vergine Madre di Dio, straordinariamente intervenuta nella sua esistenza.
       Un Diario di viaggio che affonda le origini in quella magnifica isola siciliana, per approdare ad una grotta, ai piedi dei Pirenei francesi, quasi come un novello “re mago” che correva in cerca del Bambinello di Betlemme, trovandolo proprio tra le braccia di una Madre, apparsa in un anfratto roccioso, quale “Immacolata Concezione”. Perché di questo si tratta, di un’avventura prodigiosa iniziata più di cinquanta anni fa e, ancora oggi, mai terminata; grazie allo Spirito e la Fede che d’allora animano quel pellegrino di nome Giovanni.
    Caricato di una grande croce, quel 15 maggio, partiva in cerca di quel mistero che si sarebbe rivelato a breve e del quale avrebbe fatto lo scopo di tutta la sua vita di uomo, di padre amorevole, di sposo fecondo e amoroso, per trasmetterla poi ai nipoti e agli amici che lo seguono, ancora oggi, che il suo “viaggio testimonianza” continua imperterrito, come a voler significare: “Anche voi come me, se vi mettete in cammino, potrete giungere alla meta, incontrando Dio, proprio sulle strade di questa travagliata terra, che Lui stesso aveva calpestato”.
    Un “viaggiatore della fede”, – come lo era in quel tempo lontano – lo è ancora oggi Giovanni Azzara, con la sua semplice ma radicata passione d’amore per Maria, può sempre essere d’aiuto, anche a noi, per farci incontrare Gesù Cristo che è il termine primo ed ultimo del nostro passaggio terreno. Facendoci comprendere che solamente con Lui, potremo avere quella salvezza e quella pace che il nostro animo inquieto, per dirla con Sant’Agostino, potrà trovare.
    La semplicità del testo, rispecchia completamente quella dell’Autore e da questa, attraverso quel percorso che attraversa tutta la nostra penisola e il territorio francese, ci conduce, tutti quanti davanti alla grotta di Massabielle, dove ci attende una mediatrice incomparabile, che offrirà protezione e consolazione.
    Come abbiamo già approfondito, in altra occasione, questo non è un semplice libro di viaggio, ma un cammino che apre l’animo e lo dispone alla totale dedizione verso la Madre di Dio e lo prepara ad essere totalmente del suo Figlio che vuole la salvezza di tutta l’umanità. Questo è ancora oggi il messaggio di Giovanni Azzara che deve essere letto in questa ottica per essere apprezzato profondamente.
     L’ottimo volume, corredato da significative fotografie, potrà essere richiesto anche presso la nostra sede.

lunedì 9 marzo 2015

UN LIBRO SUL MATRIMONIO PER ESSERE FELICI E CONTENTI

di Domenico Bonvegna

Non capita spesso leggere un libro che ti aiuta ad essere felice e contento. Del resto quello della felicità e della pace è uno stato d’animo che interessa tutti. Questo libro che può sembrare pretenzioso è stato scritto da Roberto Marchesini, psicologo e psicoterapeuta, “E vissero felici e contenti”, pubblicato da Sugarcoedizioni di Milano. Il testo è completato da un saggio di suor Roberta Vinerba.
Al dottor Marchesini che è impegnato giornalmente anche con coppie in crisi, sono in molti a chiedergli supporto e consiglio per il loro rapporto nelle fasi più delicate del loro matrimonio. Così gli è venuta l’idea di raccogliere in un libro, tutti i suggerimenti che di solito propone ai suoi clienti. In questo modo Marchesini evita di ripetere sempre le stesse cose ai suoi pazienti e poi è utile per tutte quelle altre coppie che non può incontrare personalmente. Non solo ma secondo Marchesini il libro potrebbe essere utile anche per i fidanzati, lo conferma nella prefazione, don Andrea Brugnoli che scrive: “lo regalerei innanzitutto ai fidanzati dei numerosi corsi prematrimoniali che organizzo, perché scoprano l’impegno delle parole del patto che stanno per compiere”. Peccato che non avevo questo ”manualetto”, quando tanti anni fa, padre Adelino Affannato, parroco di Letojanni, mi ha incaricato di tenere due relazioni nei corsi di preparazione al matrimonio che aveva organizzato per la sua parrocchia.
 Molte coppie purtroppo si sposano senza conoscere il vero e profondo significato del matrimonio. “Molte coppie si sposano senza sapere, o con una consapevolezza limitata di quello che stanno facendo, minando seriamente le basi della loro futura vita coniugale”. “E vissero felici e contenti” è un libro che non puoi perderti scrive la giornalista Costanza Miriano, autrice di due pamphlet molto discussi, soprattutto, “Sposati e sii sottomessa”. Il libro ha avuto diversi effetti nella giornalista, intanto è stato scritto bene, poche cose semplice e soprattutto da memorizzare, un piatto pronto alla perfezione, da utilizzare e “regalare alle persone a cui non riesco a dire quello che vorrei”. Il libro non è la solita noiosa ode alla famiglia, perché sostiene che il motivo per cui vale la pena sposarsi è l’amore, finalmente qualcuno lo dice, scrive la Miriano nell’invito alla lettura. Ma soprattutto il libro di Marchesini è lo “smascheramento dei meccanismi culturali che hanno portato la famiglia alla crisi attuale. Una lettura della storia e del pensiero comune davvero ricchissima di elementi, una miniera di frecce da tenere pronte da scoccare col nostro arco quando ci si trova a confrontarsi con chi la pensa diversamente (pressoché tutti)sul tema della famiglia”. Certamente la Miriano si riferisce ai capitoli 1 e 2: “Perché ci si lascia”, e “Perché ci si sposa”. Ma la parte del libro, la più indispensabile secondo la Miriano, è quella in cui si analizzano, in modo divertente e lieve, i più frequenti errori, i meccanismi sbagliati in cui incorrono le coppie…”. E’ un libro che la giornalista regalerà a mezzo mondo, facciamolo anche noi, contribuirà a migliorarlo.
 Ma prima di parlare del matrimonio occorre capire perché i giovani hanno perso il desiderio di sposarsi e forse questo testo può aiutare qualche giovane a far ritornare il desiderio.
 Intanto il libro di Marchesini si domanda: “perché molti matrimoni vanno in malora”. Lo psicologo parte da lontano, quando negli anni cinquanta del secolo scorso in Italia, per mezzo di una vasta letteratura che va dai fotoromanzi, ai rotocalchi, dalla radio, alla televisione e passando per il cinema, si giunge ad una nuova concezione dell’amore, del sesso e soprattutto del matrimonio. In questi anni si è cercato di abbandonare quel modello matrimoniale borghese stipulato per ragioni di interessi e utilitaristici per passare a quello fondato sull’amore, dove l’attrazione fisica, e il piacere erano al centro del matrimonio. Per la verità, la Chiesa cattolica da secoli predicava il matrimonio fondato sull’amore umano e sull’amore divino. Già Leone XIII (1810-1903) nella prima enciclica interamente dedicata la matrimonio, criticava la visione borghese  e marxista del matrimonio come mero patto civile, riaffermando la natura spirituale del matrimonio.
 Tuttavia gli anni cinquanta e sessanta, caratterizzati dal “boom economico”, le parole “dovere”, “dignità” e “sacrificio”, vennero lentamente sostituite con “piacere” e “divertimento”. Cambiamenti descritti dai grandi registi come Dino Risi e Federico Fellini, in “poveri ma belli” e “I vitelloni”.
 Roberto Marchesini individua ben sei fattori che hanno contribuito a questo lento mutamento della concezione del sesso e del matrimonio. Il 1° è proprio la pubblicazione di due rapporti del biologo Alfred Charles Kinsey, dal titolo, “Il comportamento sessuale dell’uomo” e poi più tardi, Il comportamento sessuale della donna”. In questa ricerca Kinsey arriva a risultati dove si legittima qualsiasi comportamento sessuale come “naturale”, peraltro Kinsey allo scopo di fornire basi scientifiche per la sua nuova moralità sessuale, secondo marchesini ha manipolato i dati raccolti. Il 2° fattore è il femminismo radicale. In pratica le femministe, facendo propria la dialettica marxista sfruttatori/sfruttati, al presunto sfruttamento maschile le femministe radicali opposero le più totali autonomia e indipendenza della donna, anche dal punto divista sessuale; da qui la valorizzazione della masturbazione e dell’orgasmo clitorideo in contrapposizione al rapporto sessuale e all’orgasmo vaginale”. Così la sessualità diventa funzionale al piacere della donna, escludendo l’uomo e i figli. Naturalmente una battaglia fondamentale delle femministe radicali è quella della liberalizzazione dell’aborto.
 Il 3° fattore che Marchesini individua nel libro è quello del sesso ludico/ricreativo. E qui il riferimento va allo psicologo e sessuologo americano John Money che nel 1975 pubblicò un articolo sul prestigioso quotidiano “New York Times”, intitolato “Recreational and procreational sex”. Money sosteneva che la sessualità umana non ha una funzione solo procreativa, ma anche “ricreativa”, questa tesi è stata accolta anche in un certo mondo cattolico, soprattutto tra quelli che contestavano l’enciclica “Humanae vitae” del beato papa Paolo VI nel 1968.
Mi fermo al prossimo appuntamento per individuare gli altri elementi che portarono alla rivoluzione sessuale e quindi allo spopolamento del nostro mondo occidentale.

sabato 7 marzo 2015

Vito Mancuso "Io amo" - Garzanti

di Giuseppe La Russa

«Rivelami ciò che ami veramente, ciò che cerchi e a cui aspiri con tutto il tuo desiderio quando speri di trovare il tuo vero godimento, e con ciò mi avrai spiegato qual è la tua vita. Quello che tu ami, tu lo vivi».
Questa citazione estrapolata da Fichte, mi pare, il vero fil rouge attraverso cui corre l’ultimo saggio di Vito Mancuso, Io amo, piccola filosofia dell’amore, testo edito da Garzanti nel settembre 2014.
Una frase, questa di Fichte, che mi ha richiamato – quasi per naturale analogia – la parte finale di un dialogo di un capolavoro cinematografico, Nuovo cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore. Quando il protagonista sta per lasciare la Sicilia, il suo amico/guida, il cieco Alfredo, così gli dà l’addio: «Qualunque cosa farai nella tua vita, amala».
Ora, le due citazioni, una sovrapposte all’altra, una compendio dell’altra, rappresentano davvero il fuoco che arde nello spirito umano ogni qualvolta esso desidera, ogni qualvolta esso percepisce una spinta più grande del suo stesso sentire, ogni qualvolta esso voglia obbedire alla Vita. E la parola ‘desiderio’ sottende a tutto il saggio di Mancuso, tanto che forte campeggia la frase «Non esiste uomo senza desiderio».
Si tratta dunque di un testo, Io amo, che guarda all’amore da ogni possibile prospettiva, nell’assunto – comunque - che è certamente impossibile dirimere esaustivamente la questione.
Il punto di partenza, la base su cui Mancuso costruisce il suo ragionamento – e su cui, a dire il vero, erige la sua filosofia – è la certezza inoppugnabile che l’uomo sia un essere relazionale, che vive di relazioni, nelle relazioni, per le relazioni. L’amore, ora, si trova ad essere in assoluto la relazione più grande, perché crea un ordine nuovo nella vita di un individuo, è caos (poiché rompe una situazione originaria) che si trasforma in logos, la nuova vita relazionale, per l’appunto, una vita che tende all’ordine, alla verità e al bene.
Amore come costitutivo dell’essere quindi, come verità; amore come “mezzo” per partecipare a quella  forza di espansione cosmica originata dal Big Bang e che secondo gli scienziati è sempre in atto, infatti c’è coincidenza «tra l’universo-macrocosmo e l’uomo micro-cosmo, ciascun essere umano riproduce nel suo piccolo la medesima dinamica dell’universo nel suo insieme. […] L’universo non solo è là fuori, ma è anche qui dentro». E l’amore è, appunto, la forza che ci fa partecipi di questa millenaria relazione, «in particolare nella sua forma di eros, concepibile nella sua fisicità come riproduzione in ogni essere vivente della forza cosmica primordiale che tende all’espansione». E questa espansione, la legge fisica che sottende all’universo, è la stessa che alberga dentro di noi e l’eros, la pulsione erotica,  è proprio il modo attraverso il quale questa legge fisica si manifesta nell’essere umano. In questa densissima parte così chiosa Mancuso: «Eros introduce caos nel sistema ordinato dell’individuo, originariamente concepito come monade unica e solitaria, e da questo caos si origina un più altro livello di organizzazione della materia. Così procede tra i viventi quell’espansione quantitativa e qualitativa dell’universo che chiamiamo evoluzione. L’impulso erotico è il caos che bussa alla porta e sconvolge l’ordine esistente al fine di crearne uno nuovo, più complesso».
L’amore è quindi l’esperienza che più di tutte sconvolge l’ordine, quella che anche Leopardi, nei suoi Pensieri, definiva l’esperienza madre, quella che Cosimo di Rondò, il “Barone rampante” per intenderci, risolveva come quella che più di tutte danno il senso delle cose, quell’esperienza che produce, secondo Mancuso, come abbiamo appena visto, una «rivoluzione integrale» tale che un uomo si lega ad un altro per produrre un qualcosa di qualitativamente diverso, poiché «l’amore maturo conduce il singolo a sussistere fuori di sé, ma non nell’altro, bensì in qualcosa di più alto di sé e dell’altro».
Così, nella consapevolezza di una forza del tutto naturale e come tale connaturata alla nostra vita, prendono campo nel libro le prese di posizione su controverse questioni come l’omosessualità, il divorzio, con discussioni che prendono spunto dalla Bibbia, ma che cercano sempre di affrontare criticamente il testo sacro: ma ogni aspetto è esaminato alla luce dei concetti sempre vivi e colonne portanti del pensiero di Mancuso, ossia ‘bene’ e ‘verità’. In ogni aspetto della nostra vita va seguita la verità: è questo il modo per essere fedeli alla Scrittura, essere fedeli alla vita. Anche l’amore per Dio assume, ovviamente, questa direzione, la prospettiva del bene e della giustizia: tra amore per Dio e amore per sé viene ad instaurarsi un profondo legame, per amando Dio, scrive Mancuso, «si ama la luce dell’uomo interiore che è in noi, in quanto è solo amando la propria interiorità come custodia di una certa dimensione dell’essere che prende senso l’amore per Dio».
Nella natura e tra le cose naturali, dunque, trova luogo l’amore, ed esso è relazione ed in quanto tale costitutivo dell’essere. L’amore abbraccia allora la nostra esistenza, la avvolge, la indirizza verso la direzione del bene, della verità: ecco, dunque, che si spiega la nostra premessa. Mostrando di voler legare la nostra libertà a qualcosa di più grande di noi (perché secondo Mancuso la nostra libertà, paradossalmente, sente la necessità di legarsi, ma a qualcosa che è più grande, qualitativamente), mettiamo a nudo il nostro animo, sveliamo la nostra identità. Mostrando il fuoco che dentro di noi arde e che ci spinge, che ci fa tendere ad una espansione del nostro spirito, microcosmo specchio del macrocosmo, apriamo il cuore alla Vita che ogni giorno si affaccia a noi, ad essa obbediamo e manifestiamo ciò che siamo, perché l’uomo ciò che ama lo vive.
E se riusciremo – come il cieco Alfredo ci urla - ad amare qualunque cosa ci toccherà fare nella vita, non avremo forse indirizzato il senso della nostra esistenza?