martedì 26 gennaio 2016

Spiragli di luce tra le rovine. I romanzi di Elvira Sciurba e Giovanni Taibi

di Maria Patrizia Allotta

Non tutto è perduto, fortunatamente. Ancora qualcosa si salva tra le rovine letterarie che caratterizzano i nostri giorni.
Infatti, tra l’inchiostro barbaro e le incolte carte, in mezzo alle selvagge pagine e ai banali fogli, insieme ai libri che evidenziano la pochezza e la volgarità di certi tardi pseudi-scrittori che con arroganza si autoprofessano innovatori e con boria si autoproclamano creatori di nuovi stratagemmi stilistici, troviamo ancora pochi Autori che quasi stoicamente resistono all’abbaglio delle false mode letterarie, alla furbizia degli infingimenti, alle novità esageratamente eclatanti del linguaggio, per salvaguardare quel sinolo di forma e sostanza che solo la nostra tradizione letteraria può vantare.
Ed è tra i coraggiosi paladini della cultura senza tempo, tra i guerrieri del sapere arcaico, tra i prodi del patrimonio autoctono che troviamo due figli della Sicilia, ovvero, Elvira Sciurba e Giovanni Taibi, i quali con le loro opere rispettivamente intitolate La silente colpa del peccato e Lame di buio dal passato illuminano i sentieri della buona lettura.
Due narrazioni, che non hanno in comune semplicemente l’essere stati scritti quasi contemporaneamente da due siciliani doc, ma anche la capacità descrittiva dell’ambientazione tipicamente mediterranea che inevitabilmente riconduce alle radici e alle origini dei due Autori, la sofferenza individuale dei protagonisti che si allarga poi in direzione universale, e ancora, l’incomunicabilità tra i personaggi, l’indifferenza fatale e l’incomprensione predestinata che si evidenzia tra loro, e infine, l’affanno persistente, il dubbio lacerante, il dolore perpetuo e la morte considerata quest’ultima non come naturale possibilità ma come liberante necessità dell’essere.
Certamente, non si preoccupano i Nostri di fissare in modo chiaro ed evidente le coordinate spazio-temporali. Per il loro disegno non serve. Le azioni descritte, infatti, si svolgono in un tempo dilatato, quasi a volere dimostrare ai propri lettori che la colpa del peccato - che troppo spesso svilisce l’esistenza umana - e le lame di buio - che sovente deprezzano la stessa vita - non hanno età, non conoscono epoche precise, né stagioni particolari, neppure momenti prescritti. Persistono senza fine, invece, nel teatro dell’eternità, quasi come archè incondizionato, principio irrazionale, inizio assurdo, primordio sconfinato che prima abbraccia e poi stringe fino a soffocare.
E l’arena delle azioni dettate dalle colpe e dalle lame, dal peccato e dal passato è, appunto, l’intero universo che ora si concretizza minuziosamente e consapevolmente nell’opera ampia, articolata, enfatica, della Sciurba la quale s’ispira all’alto magistero del Tasso che della concatenazione strutturale architettata ne fece un gioco autentico privo di ogni registro comico o volgare, ora si delinea globalmente e inconsciamente nel lavoro passionale, essenziale, asciutto, armonioso del Taibi, il quale servendosi della brevità e dell’intensità dell’intreccio raggiunge un perfetto equilibrio.
Non c’è dubbio: entrambe le opere riconducono alle problematiche pirandelliane. Infatti, tanto i personaggi sostanzialmente popolani e umili della Sciurba, quanto i personaggi borghesi e colti di Taibi si muovono in una dimensione ora patetica ora dimessa, afflitta e deposta, quasi malinconica, a volte esageratamente violenta, priva di certezze e senza messaggi apparentemente positivi da trasmettere, ma perché presi da quei conflitti interiori che sfociano poi in indicibili drammi, causati, paradossalmente, da quell’intimità profanata che lo stesso nucleo familiare dona, generando nel tempo, un’irreparabile incomunicabilità.
E chiaramente i Nostri non descrivono la crisi dei rapporti umani, o la rottura in seno alla famiglia, oppure la caduta di ogni ideale semplicemente per rappresentare una società in pieno disfacimento che ha perso ogni riferimento cardinale, magari sperando nell’identificazione del lettore con gli stessi personaggi da Loro raccontati, al contrario, secondo chi adesso scrive, l’intendimento è quello di evitare la diretta assimilazione e, comunque, ogni forma di riflessa complicità, costringerlo semmai il pubblico a riflettere e ripensare criticamente circa i veri significati dell’esistenza andando oltre i luoghi comuni, gli stereotipi e i pregiudizi, le false opinioni e gli inutili moralismi fini a se stessi.
Ecco, allora che il pregio delle due narrazioni sopramenzionate, è dato proprio da quel prezioso rapporto organico tra fantasia, invenzione e riflessione intellettuale, la quale riflessione, ha come ipotetico obiettivo la possibile fuga dalla crisi esistenziale che appare ora sotto forma di snaturamento della personalità ora sotto forma d’incapacità comunicativa ed espressiva, ora come violenza e aggressione ora come irrimediabile caduta di quelle certezze affettive che, invece, necessitano ad ogni singolo, per essere se stesso e avere rapporti continui ed equilibrati con gli altri.
Ma non è tutto. Se nell’opera intitolata La silente colpa del peccato evidente è il richiamo forse inconsapevole alla teoria del dolore e della felicità di Schopenhauer, nell’opera Lame di buio dal passato chiara e costruttiva è l’istanza filosofica che riconduce inevitabilmente al punto zero di Kierkegaard e al nichilismo di Nietzsche.
Alla maniera del filosofo nato a Danzica sembrerebbe, infatti, che per la Sciurba la vita è dolore per essenza.
Nelle sue descrizioni lente tutto soffre. I suoi stessi personaggi, al di là del “breve sogno” e delle inutili “illusione”, risultano soggetti tormentati e angosciati che esistono a patto di sopportarsi gli uni con gli altri. Il pendolo della loro vita oscilla fra il “desiderio” e la “noia” e perfino l’amore “che si impadronisce delle forze e dei pensieri dell’umanità più giovane” è inganno voluto da Cupido “signore degli dèi e degli uomini”.
Fra colpe e peccati l’amore, dunque, così come pure afferma Schopenhauer altro non è se non “due infelicità che si incontrano, due infelicità che si scambiano e una terza infelicità che si prepara (…), infatti, l’unico amore di cui si può tessere l’elogio non è quello generativo dall’eros, ma quello disinteressato della pietà”. E nel testo della scrittrice palermitana nessuna pietà s’intravede, nessuna misericordia, nessuna via di liberazione, e Celeste di nome e di fatto, vera protagonista dello scritto, è frutto di quell’amore che genera solo vergogna, traviamento, tragedia.
Scrive la Sciurba: “(…) sarebbe bastato un normale comportamento amorevole e altruistico, l’uno nei confronti dell’altro per vivere nella normalità della vita. Ognuno invece era stato artefice della rovina dell’unica vita che il cielo dona, sprecandola nel dolore e nell’infelicità generati ogni giorno dalla loro inspiegabile voglia di far male agli altri in nome dell’affermazione del proprio io, un io inutile e diabolico”.
E più avanti “La vita è proprio come un anello: parti dall’origine, giri, giri e poi ritorni sempre al punto di partenza. E lì troverai ciò da cui sei partito e ciò che hai lasciato. Ma se parti dalle macerie è probabile che troverai ceneri. (…) per questo quel pianto non era un pianto liberatorio: era il pianto della disperazione, del dolore, dei rimorsi e della paura.”
Infine: “Quanto avevano sofferto tutti quanti! E quanto male si erano reciprocamente causati! E poi perché? Per nulla. Solo per rancore l’uno contro l’altro, vittime inconsapevoli di un aberrante sistema sociale.”
Bastano queste citazioni, per fare intendere come nell’opera della Sciurba “la volontà di vivere” non segue nessuna apparente logica, né ragione, neppure saggezza, piuttosto la stessa “volontà” è un destino fatale che determina nell’esistenza di ciascun uomo un perenne tendere senza una meta ultima. E poi, in fondo, la morte, senza avere certamente conosciuto la felicità, la quale altro non è se non privazione del dolore.
E’ così per Donna Maria e Vito Colajanni, per Ciccio e Donna Matilde, per Don Totò, Cecilia, e la già menzionata Celeste per i quali il livore, il rancore e l’avversione sono più determinati della remissione, del perdono e della grazia, mentre il silenzio, le colpe e i ricordi sono più forti del grido della gioia, della passione e dell’amore stesso.
E questa gioia, questa passione e questo stesso amore, in modo ancora più drammatico, vengono negate anche ai pochi ma significativi personaggi ideati da Taibi, in quest’opera dal titolo estremamente emblematico, dove è possibile, tra l’altro, rintracciare rare ma sicure tracce e intonazioni autobiografiche, forse inconsciamente dettate.
In Lame di buio dal passato la “volontà di vivere” è ancora più oscura, il dolore più acuto e la morte più incombente. Il passato è veramente silente e le colpe rappresentano affilatissime lame.
L’autore, infatti, raccontando le vicissitudini amorose di Salvatore - diversamente dalla Sciurba che parte da una disamina di stampo sociale per arrivare all’individuale - indaga direttamente sull’interiorità dell’esserCi e sulle sue possibilità, proprio alla maniera di Heidegger e Kierkegaard.
La riflessione dello scrittore di Baucina non riguarda, dunque, l’uomo in generale ma piuttosto “l’esistenza del singolo", dando al termine esistere il giusto significato di existere, ovvero la possibilità per ogni uomo di uscire fuori dall’infinità, per prendere coscienza della propria condizione finita, che è sempre posta all’estremità tra essere e non essere.
E in effetti sia il protagonista che i personaggi dell’opera di Taibi si trovano - in relazione alla propria condizione esistenziale - davanti a illimitate possibilità che necessitano, tuttavia, una sola scelta: da qui la loro instabilità affettiva, l’indecisione tra le alternative eventuali, il dubbio, il forse, la paralisi e, quindi, l’angoscia, la disperazione. Ancora una volta siamo in presenza di un dramma.
Ed è probabilmente la formazione umanistico-filosofica dell’Autore, professore di materie letterarie, a spingerLo a fare tesoro dell’insegnamento kierkegaardiano, secondo il quale: “Chi esce dalla scuola della possibilità ha imparato, meglio di quanto un bambino non abbia imparato il suo abbecedario, che dalla vita non ha assolutamente il diritto di pretendere nulla e che il terrore, la distruzione e la perdizione, abitano uscio ad uscio con ogni uomo”. E questo il Nostro lo sa perfettamente - forse perché sperimentato sulla sua stessa pelle – facendo, per questo, del suo ultimo lavoro letterario un singolare racconto dove le alternative sono inconciliabili e le soluzioni definitive impossibili.
In virtù di quanto detto, tuttavia, è giusto precisare che - alla maniera di Nietzsche - non siamo in presenza di un “nichilismo passivo” ma di un “nichilismo attivo”.
La volontà del Taibi, infatti, sembrerebbe quella di non evidenziare semplicemente (come già detto) la crisi dei valori, la decadenza, la negatività, la solitudine e l’angoscia dell’uomo dettata dalle sue possibilità e dalle eventuali inconciliabilità, ma quella di condividere fino in fondo la logica perversa del nichilismo fino a scoprirne se all’esaurimento di questo diabolico procedimento non si spalanchino all’uomo spazi per una nuova progettualità esistenziale.
In tal senso, il medico Salvatore - che pure crede nella morale collettiva e nei più alti ideali tradizionali - preso dal suo “mal d’amore” che coincide perfettamente col suo “mal di vivere”, non appare ai lettori un nostalgico, né tanto meno un malinconico, neppure un inutile sentimentale fermo al punto 0, ma un eroe, un coraggioso combattente, un oltreuomo capace di affidarsi alle proprie forze per tacitamente generare nuovi sentieri e progettare insoliti orizzonti.
Non soltanto dolore e morte, allora nell’opera di Taibi, ma anche speranza e vita, così come similmente nell’opera della Sciurba.
L’eterna lotta freudiana tra Éros e Thánatos è, infatti, presente sia nell’analitico chiaroscuro di passione-desolazione, odio-amore, realtà-sogno proposto nelle articolate e minuziose 462 pagine racchiuse sotto il titolo di La silente colpa del peccato, edito da Europa edizioni, sia nel contrasto sinteticamente organico e introspettivo presentato nelle 118 pagine ben strutturate, edite da Sergio Cingolani, di Lame di buio dal passato, dove anche i preziosi aforismi che introducono ogni capitolo abilmente rappresentano la continua lotta fra le “pulsioni di vita” e le “pulsioni di morte”.
Ed è proprio in funzione delle pulsioni di vita, che tra l’altro includono quelle dell’autoconservazione, del sesso, del piacere e della bellezza, che entusiasticamente spingono ancora una volta Elvira e Giovanni a donare piccoli frammenti lucenti rintracciabili… tra le rovine letterarie…. che caratterizzano i nostri giorni.
Fortunatamente, non tutto è perduto, almeno in ambito creativo e letterario. 

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