martedì 10 maggio 2016

William Golding, "Il Signore delle moschee"

di Luca Fumagalli

Il Signore delle Mosche è un romanzo che nasconde una rivelazio­ne; il suo scopo è quello di mostrare il male dell’uomo che, capitolo dopo capitolo, diventa sempre più evidente, fino a trascinare i giovani protagonisti in un gorgo di follia e disperazione. Quella che coinvolge i ragazzi – naufraghi su un’isola in cui regna la violenza mentre il mondo è devastato dalla guerra nucleare –è un’operazione di autoco­scienza che li porta a rendersi conto che non esiste nessuna bestia selvaggia se non quella che dimora in loro. Da bambini innocenti, certo desiderosi di essere salvati ma, soprattutto, di divertirsi e di godersi la bellezza del luogo, tutti si svelano col­pevoli. D’altronde il fuoco che avvolge l’isola al termine del libro – una sorta di cartolina infernale – sembra suggerire l’impossibilità per l’uomo di edificare qual­cosa di sano e durevole. Tutto è contaminato, rovinato, abbruttito anche solo dalla sua presenza.
Golding, come prima ipotesi per il suo romanzo, aveva pensato al titolo diStranger From Within, un riferimento alla condizione dei protagonisti che si scoprono diversi, stranieri appunto, portatori di un male che, all’arrivo sull’isola, era loro sconosciuto. La storia non è però quella di un cambiamento, di una mu­tazione, ma del passaggio dall’ignoranza alla conoscenza. La terribile realtà è che non è stata l’isola a condurli al male, ma loro, come tutti gli esseri umani, sono così, sono sempre stati così. Non era la colpa che li rendeva stranieri a se stessi, ma l’inconsapevolezza.
Sarebbe quindi errato limitare il romanzo a un confronto tra mondo civile e mondo selvaggio perché, se da un lato si ricadrebbe inevitabilmente negli ste­reotipi del passato, espressamente avversati da Golding, dall’altro lo stesso testo non suggerisce questa divisione. Nel libro l’intero mondo è in guerra, tanto quello degli adulti che quello dei ragazzi, e per nessuno è possibile sfuggire al destino che la natura ha scelto per lui: da questo punto di vista il bambino è padre dell’uomo adulto.
Il Signore delle Mosche, titolo definitivo proposto in seconda battuta per motivi editoriali, oltre a essere la perifrasi biblica di Belzebù, rimanda a quella testa di maiale conficcata su un palo da un gruppo di ragazzi che figura come una sorta di oggettivizzazione del male, facendo esplicito riferimento all’o­rigine demoniaca della malattia che contagia l’uomo. Golding puntualizza la parabola umana scegliendo come protagonisti i fanciulli, evangelico e tradizionale sinonimo di innocenza, proprio per rompere ogni schema e per provocare, ancora più nell’intimo, il lettore.
La questione in gioco è dunque più profonda ed essenziale; così l’autore commenta l’origine e lo schema generale del romanzo:
Prima della Seconda guerra mondiale, credevo nella perfettibilità dell’uomo sociale, che una società correttamente strutturata avrebbe potuto produrre buo­na volontà, e che, allo stesso modo, si sarebbero potute rimuovere tutte le ma­lattie sociali attraverso il riconoscimento nella società. È possibile che oggi creda ancora in qualcosa di simile, ma dopo la guerra sicuramente no, perché non ne ero capace. Avevo scoperto cosa un uomo può fare ad un altro […] vi erano cose fatte in quel periodo dalle quali devo distogliere l’attenzione della mia mente per evitare di impazzire. Non erano state commesse dai cacciatori di teste della Nuova Guinea o da alcune tribù primitive dell’Amazzonia. Erano state fatte abilmente e freddamente a esseri della loro specie da uomini di buona educazione, dottori, avvocati, da uomini che avevano dietro una tradizione di civilizzazione… Devo dire che chiunque ha attraversato quegli anni senza capire che l’uomo produce il male come l’ape il miele, deve essere stato cieco o ammattito.
La devastazione del più grande conflitto della storia ha spinto Golding a una riflessione che non si limita solamente al dramma della guerra in sé, ma che va oltre, cercando le radici che hanno generato tale sciagura. La missione che si autoimpone non è quella di fotografare un determinato periodo storico – Golding non è uno scrittore di guerra – ma di strutturare una sorta di apologo che sia universalmente valido. L’obiettivo è piuttosto ambizioso, ma è proprio questa la cifra che rende Il Signore delle Moscheun’opera tanto riuscita quanto spiazzan­te. Nella trama, d’altronde, la guerra fa solo da sfondo a un’azione che è autonoma e che si situa in un luogo dove, almeno in teoria, vi sono tutte le condizioni per poter condurre una vita pacifica.
Dal 1954, data di pubblicazione del volume, a oggi, si sono susseguite di­verse teorie interpretative, tese a individuare più chiaramente quale fosse l’ori­gine del male, dello scontro viscerale che coinvolge i gruppi sull’isola. C’è chi si è spinto in considerazioni freudiane indentificando il romanzo come una sorta di drammatizzazione delle teorie psicologiche del mito e del tabù, della crescita o del rapporto tra i sessi. Chi, invece, ha voluto vedervi un’aperta accusa alle ideologie del XX secolo in cui la democrazia è distrutta dall’autoritarismo irrazionale, e chi, in ultimo, vi ha colto una sorta di allegoria sociale in cui l’uomo, senza i legami della civilizzazione, ricade nella belluinità selvaggia.
Sono tutte piste suggestive e valide, a patto però di non considerarle singo­larmente. Ne Il Signore delle Mosche, infatti, si compenetrano naturalmente tutte queste tracce, rivelazioni diverse della medesima natura. Del resto, se è vero che Golding condanna apertamente le ideologie politiche primonovecentesche, è altrettanto evidente che il libro non si può limitare solo a questo aspetto. Anzi, la politica è presente soprattutto nelle premesse generali al lavoro, dal momento che gli esperimenti sociali del XX secolo sono tutti caratterizzati dalla parzialità e dall’insensato ottimismo:
Sistemi sociali e politici furono creati indipendentemente dalla reale natura umana. […] Essi volevano perfezionare l’uomo o, almeno, ridurre le aberra­zioni. Perché, allora, non hanno mai funzionato? Come ha fatto il primitivo idealismo socialista a trasformarsi nello stalinismo? Come ha potuto l’idea­lismo politico e filosofico della Germania produrre Adolf Hitler? Sono con­vinto che quello che è successo è stato mettere il carro davanti ai buoi. Si guardava più al sistema che all’uomo. Mi sembrava che la naturale attitudine dell’uomo per l’avidità, la sua innata crudeltà e autoreferenzialità fosse stata coperta sotto un paio di pantaloni. Credevo quindi che l’uomo fosse malato, non l’uomo eccezionale ma quello qualunque.
Golding si spinge oltre la critica ai totalitarismi per attaccare la banalizzazio­ne razionalista di Hobbes – per cui la civiltà può porre una freno agli atteggiamenti più ferini – e, soprattutto, di Rousseau, convinto che l’umanità sia naturalmente buona e che a depravarla sia la società. Le convenzioni sociali, in realtà, sono solo un maldestro espediente per coprire quel male che, usando una dizione cristiana, si potrebbe definire “peccato originale”.
L’utilizzo esplicito di tale concetto suscita occasionali malumori tra gli stu­diosi, così come è vero che una velata critica al cristianesimo è insita nella de­scrizione di Jack e dei ragazzi del coro, istituzione che, nell’ambito del sistema scolastico britannico, ha la scopo principale di accompagnare le funzioni religiose. D’altro canto il concetto di peccato originale offre l’unico punto di vista, al con­tempo ampio e profondo, in grado di tenere insieme tutte quelle interpretazioni particolari accennate in precedenza. Golding ne fa menzione esplicita, forse in un senso più antropologico che teologico: «L’uomo è un essere umano caduto. È pre­da del peccato originale». Il giudizio negativo che l’autore esprime ne Il Signore delle Mosche non va dunque inteso secondo una visione politica, psicologica o economica, ma in senso globale, investendo tutti i fattori costitutivi dell’e­sperienza umana. È l’uomo che è malato in natura, e tutto il male che compie altro non è che l’esplicitazione della ferita che porta nella sua anima: «La vita poteva essere infelicemente dispersiva, poteva anche andare nel peggiore dei modi, pur senza la presenza di qualcuno straordinariamente malvagio».
L’idea di peccato originale che Golding manifesta differisce però fondamen­talmente da quella teologica tradizionale perché vi è esplicitamente contenuta la negazione della possibilità di redenzione che è naturale complemento dell’errore. Nel testo non vi è alcuna traccia di Grazia.
Lo scrittore britannico si avvicina poi a una concezione più protestante che cat­tolica; il suo essere umano è spiegato attraverso Lutero e Pascal, accomunati nel rilie­vo decisivo che entrambi danno al peccato. Ma, forse, il giudizio è troppo affrettato se si considera il ruolo chiave della conchiglia che, in questo ulteriore senso, può testi­moniare almeno un lembo di bontà e vocazione all’ordine che, anche solo sul fondo, giace comunque nel cuore dell’uomo.
Il dato che emerge incontrovertibile dalla lettura del romanzo è che, innan­zi al male, Golding non trova una risposta, forse considerandolo inemendabile. Il pessimismo radicale lascia spazio solo occasionalmente a momenti in cui emerge impellente un desiderio di salvezza, di qualcosa che, in un certo senso, possa libe­rare l’essere umano dalla sua condizione disperata. Ma nulla è in grado di offrire sostegno, neanche il mondo degli adulti. Tutto quello che rimane dell’esperienza dei ragazzi è il grido inascoltato negli occhi di Ralph.

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