martedì 22 novembre 2016

Tommaso Romano, "Elogio della Distinzione" (Ed. Thule)

LA DISTINZIONE COME NOBILTÀ NEI CAVALIERI DELLO SPIRITO
di Giuseppe Bagnasco


  Dopo l’Elogio dell’ozio di Bertrand Russel e il più vetusto Elogio della pazzia di Erasmo da Rotterdam, tra i più rinomati e che si “distinguono” dai tanti, per gli argomenti similari trattati nel campo della disquisizione antroposociologica, ecco l’arrivo sul tavolo delle nostre “distrazioni”, quasi a completamento di una sorta di Trilogia, L’Elogio della Distinzione (Fondazione Thule Cultura – Palermo 2016) del filosofo Tommaso Romano. Non è un trattato ma un “manifesto”, una riflessione non confessionale, sullo stato e condizione contingente e spirituale a cui è pervenuta la società contemporanea del mondo che per semplificazione chiamiamo “occidentale”. Un manifesto, dicevamo, che si può leggere alla stregua di un manuale di regole educative, senza per questo assumere i connotati di una filippica sebbene a tratti appaia come significativa e volitiva “omelia”. Né poteva essere diversamente per l’argomento affrontato e che spazia per tutto l’arco della devianza nei comportamenti “tradizionali” dell’uomo odierno.
   Per potere scrutare a primo acchito il poderoso testo e carpirne le parti più salienti, visto che è composto da ben tre “corpi” relativi ad un saggio dell’Autore, un saggio dell’illustre Amadeo-Martin Rey y Cabieses e un ricco e unico Florilegio di Autori, ci viene in soccorso il sottotitolo: Aristocrazia, Cavalleria, Nobiltà, Stile in tempo di barbarie. Non c’è alcun dubbio nell’affermare che si tratti di una esplorazione storica e sociologica su ciò che questi “titoli” hanno rappresentato e che l’Autore  sottolinea con l’intercalare il testo di disegni riferiti a momenti d’azione della Cavalleria  d’un tempo con schiere cristiane affrontanti le saracene e la raffigurazione nell’antifrontespizio della sagoma idealizzata del Krak (fortezza crociata in Siria) dei Cavalieri Ospitalieri di Gerusalemme divenuti poi di Rodi, infine di Malta e oggi rappresentati dallo SMOM.
   Tommaso Romano, non nuovo nell’esposizione di “tesi teologali” sullo spirito, da buon cristiano di fede qual è, mette al servizio del dettato di Dio, la vestitura armata del distinto “Cavaliere dello Spirito”. E lo fa discettando sui temi sopraindicati, a cominciare dal concetto di Aristocrazia, distinguendo quella di spada da quella dello spirito.  L’aristocratico, nel composto della semantica greca di aristòs (eccellenza) e cratòs (potere di governo), delinea una persona che si governa da sé e per espansione, colui che si isola dalla folla. E per folla, come afferma l’Autore, s’intende quanti sono accomunati nella volgarità, rozzezza, dozzinalità e violenza del comportamento nelle parole come negli atti, fino ai modi. Tuttavia, sempre nel proseguo della ratio in Romano, l’isolarsi dalla realtà, l’eccessivo autocontrollo, compresa la mancanza di ironia, non consentono l’educazione alla nobiltà che, di contro, si consegue nella capacità del saper scegliere il confacente rapporto con il prossimo. L’aristocratico è pertanto la persona distinta, custode di quei valori che dovrebbero armare  i suddetti Cavalieri per conquistare “nelle steppe del nulla, la Gerusalemme Celeste. Il tutto”. Oggi che il “progressismo”, l’innaturale livellamento sessuale, l’omologazione alla massificazione, portano ai conseguenti disvalori, fra tutto questo declinare un posto privilegiato è riservato ad una virtù d’eccellenza: l’Onore.
   Ora, a prescindere dalle valutazioni sottolineate dallo storico Franco Cardini che lo conforma a dignità personale, reputazione e onorabilità  comportanti il diritto della persona al rispetto e alla stima, bisognerebbe qui aprire uno spaccato su questa virtù che, a parere non solo nostro, incardina tutte le qualità del “buon uomo”, del buon cristiano ma che non si riflette nel diverso homo bonus del poeta Marziale. Incominciamo, purtroppo, col dire che le culture della menzogna, dell’ipocrisia, hanno inferto una profonda e dolorosa ferita nel comportamento deontologico degli uomini e in particolare nel malinteso senso dell’onore soprattutto se riferito alla latina sacralità della parola data, pacta servanda sunt, come comprova, per mantenerla, il  sacrificio del console Marco Attilio Regolo. Pensiamo ad esempio a quanti giustificano un loro scomposto agire con un’alzata di spalle o con quel “Je m’en fous”, di recente pronunciato dal Presidente della Commissione Europea Juncker e che fa comprendere quale ingloriosa fine abbia fatto quel certo bon ton!. Ma la trasgressione del senso dell’onore ha antica data giacchè la ritroviamo, spulciando la mitologia greca o passi della Bibbia, nei racconti del “padre” Zeus che ricorreva al travestimento e finanche alla sostituzione di persona per sedurre con l’inganno le belle mortali o come nella vergognosa e subdola condotta di Re David quando mandò in guerra, in prima linea e quindi alla morte Uria, lo sposo della bella Betsabea che aveva sedotto e che comunque poi da vedova sposò. E ancora, non possiamo elencarli tutti, nel tradimento fatto da un certo Horatio Nelson nei confronti dell’Ammiraglio Caracciolo (la resa in cambio della vita) e che invece fece impiccare sulla murata della sua Victory contravvenendo come un volgare pirata alla parola data. Infine, ricorrendo alla Storia, ancora sull’onore tradito, quando Enrico IV di Francia pur di mantenere salda la sua corona abiurò alla sua fede protestante e abbracciò quella cattolica con un probabile e analogo “Je m’en fous” nel famoso “Parigi val bene una messa!”. Ma i dettati del codice d’onore hanno sempre governato, lungo il corso dei tempi, gli uomini giusti e probi e ciò sin dai codici cavallereschi del Medioevo giungendo per alcuni tratti, perfino a quelli non scritti dell’onorata società, uniformemente intesa in tutto il nostro Meridione e giunta, con l’emigrazione “imposta” dopo la sua piemontesizzazione, fino alla “frontiera” dell’Ovest americano. Erano codici che tutelavano l’onestà della donna, intoccabilità dei bambini, la parola data, con in aggiunta il divieto di sparare alle spalle o ad un uomo disarmato. Norme non scritte nella vita che, fino all’abolizione formale del feudalesimo, si conduceva nei feudi e che era regolata da un castaldo, un soprastante, un fattore che amministravano la giustizia “parallela” essendo i feudi luoghi spesso “inaccessibili” anche alle compagnie rurali dei governi del tempo. Nacque lì la vecchia “onorata società” da non confondere con la successiva malavita organizzata o coi “picciotti” di La Masa che furono, ma ancor prima in letteratura nei manzoniani “bravi” di Don Rodrigo o nei severi “tribunali” della setta panormita dei Beati Paoli di natoliana memoria, il loro capostipite. Era quest’ultima una “Confraternita” segreta, come afferma il Villabianca, di uomini valenti che perseguivano i valori della difesa dei deboli e della giustizia pur rimanendo nelle loro feroci sentenze ferventi religiosi e credenti in Dio e al Santo di Paola, a cui si richiamavano. A uomini di tal fatta, a questi “uomini d’onore”, si deve l’appellativo di “cristiano”. Ma torniamo all’Elogio della Distinzione e al tema della Ecosofia affrontato dal filosofo Romano nel riconsiderare il senso della abitazione in cui si vive.
   Al pari di Francesco Alberoni che nel novero della scienza della comunicazione include quella che avviene attraverso il vestire certi abiti dando a questi la facoltà di dare un messaggio su chi li indossa, così il Nostro attribuisce lo stesso significato all’arredamento e al gusto di disporlo in un certo modo nella dimora di una persona dalle qualità “aristocratiche”. E questo come proiezione della propria identità dedicando tra gli arredi anche uno spazio ai ritratti dei propri antenati a guisa dei Lari e dei Penati dei Latini. Completano, conclude Romano, la bellezza della dimora, non necessariamente un palazzo, il poter accudire l’eventuale giardino di casa o il curare il collezionismo al pari di un personale museo, considerando entrambi come manifestazioni secondarie del gusto del dimorante. Con questo fare si può contrastare, aggiunge l’Autore, il completamento dell’ecatombe che incalza e principalmente col formare, con persone che in ciò si riconoscono, una sorta di patriziato civico di pochi ma decisi “Cavalieri”. Titolo di nobiltà, ammonisce il Nostro, che non deve essere acquisito tramite sedicenti Istituti che l’elargiscono dietro compenso essendo insita la possibilità di poter incorrere così, in quel “Todos Caballeros” che l‘imperatore Carlo V concesse a certi postulanti sardi che lo reclamavano. Frase che oggi viene usata in tono dispregiativo annullando di fatto la distinzione o il prestigio dei pochi che lo meritano.
   Fatto salvo questo primo “tomo” che forma il “corpus iuris” principale dell’Elogio della Distinzione, essa incorpora altresì una poderosa antologia, un Florilegio di Autori che espongono le loro frasi, trattazioni, aforismi nel reticolo degli argomenti qui esposti, con particolare riguardo al significato di Aristocrazia. Pur tuttavia di questi Eccellenti non ci è possibile citare tutti i nomi dal momento che in dettaglio l’elenco supera le cento pagine. Fa da cornice a tanto disquisire, un prezioso saggio del nobile spagnolo Don Amadeo-Martin Rey y Cabieses, storico e critico nell’ambito araldico-cavalleresco della Classe aristocratica e della Tradizione iberica, che ne approfondisce lo studio, con un particolare riguardo a quello genealogico italiano. Il saggio dell’Illustre, Componente dell’Audizione Generale e Consigliere della Real Deputazione del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio nonché Membro Corrispondente del Collegio Araldico di Roma, risulta diviso in Nobleza, Aristocracia e Caballeria, speculari in qualche modo al sottotitolo dell’Elogio della Distinzione. Nella reflexion final l’Illustre raccomanda il rispetto della palabra dada, la bondad y la generosidad e la valentia y la humildada de corazòn perché solo la loro actuaciòn es la mejor aristocracia , cioè quella del poder de la bondad. 
   Alla termine di queste note, una riflessione, anche se non esaustiva, di quanto ci resta, speriamo in seguito non in briciole di memoria, della meritoria opera del “mosaicosmico” Magister. Senza scadere nella facile apologia di maniera, si resta “impressionati” da questo album di fotografie-commentario che, senza tema di supponenza, potremmo definire “De humanitate destructa”, giusto per parafrasare i commentari cesariani, nonchè coinvolti dall’afflato che traspare dalla malcelata angoscia con cui l’Autore esamina l’uomo sedotto e concupito dalla Tecnolatria dalla quale non si può distaccare senza il paventato pericolo di non apparire “politically correct”. Il richiamo risulta un accorato appello a quanti si avviano ciecamente verso l’abisso dell’anima trascinando con sé duemila anni di cammino e di acquisizione di una civiltà della quale restano testimoni ineguagliabili città uniche come Atene, Roma, Alessandria, Gerusalemme, Venezia, Pietroburgo. Un richiamo quindi per impedire a costoro di non finire aggrappati, in un rigurgito di ravvedimento, a quella “Zattera della Medusa” che tanto bene rappresenta la deriva di uomini disperati, il dipinto di Theodore Gèricault. A ben vedere, l’Elogio della Distinzione costituisce una sorta di testamento spirituale del Cavaliere dello Spirito Tommaso Romano, appartenente purtroppo all’esausto filone di un certo nuovo romanticismo, non letterario ma spirituale nel senso che si richiama al Passato vestendo la parola di “Redentore” di una certa cultura. Un testamento spirituale, dicevamo, che si coglie in questo Discepolo della Cultura che quale Pellegrino del Cosmo chiude questo pregevole lavoro, con fare quasi colloquiale, con un congedo, certamente non occasionale. Egli infatti inserisce al confine dei “tomi” trattati, un testo dal significativo titolo “Congedo al cafè de Maistre”. E volutamente, prendendone a prestito il nome, sceglie per siffatto “eremo senza terra”, l’immaginario ricovero in un Caffè, posto di fronte il mare nel Foro Borbonico (oggi Italico), dove in una atmosfera pregnante di “art nouveau”, si ritrova a scrivere, tra un caffè e il centellinare di un Porto, avvolto nell’aria da una coinvolgente musica mozartiana, una lettera, quasi una immaginaria “epistola apostolica” rivolta ad una civiltà al tramonto. In questa, da buon Anacoreta occulto, chiama alla resistenza con quel pudore, riserbo, dignità,  sensi comuni ai pochi frequentatori di quel Caffè, anche se ritiene che tutto è perduto, riprendendo in ciò la frase di Francesco Primo di Francia nell’infausto giorno di Pavia, nel messaggio alla propria madre, “Tutto è perduto fuorchè l’onore”. Ed è nel nome di queste virtù e dell’onore che il Romano, come in un battesimo liturgico, rinuncia al satana della egemonia tecnologica e alla dittatura del pensiero unico nello stesso modo in cui rinuncia agli applausi dei falsi adulatori, esprimendo come unica aspirazione quella di essere lasciato in pace dentro un immaginario Chiostro. E’ nel contesto di queste note che il Filosofo appare nelle vesti più dimesse dell’ordinario umano, svelando una sorta di stanchezza per l’impari lotta contro questo mondo destinato al declino, riponendo però l’ultima speranza nel salvataggio ad opera della divina Provvidenza. Si chiude così questa antologia, questo breviario-manuale di concetti, richiami, esortazioni che, iniziati con la Distinzione, anima della nobiltà del cuore e dello spirito, giungono al termine di questo excursus, alla malinconia nel corpo senza tuttavia coinvolgerne l’anima.

martedì 15 novembre 2016

LOUIS DE WOHL, La lancia di Longino. La storia straordinaria di un uomo comune, Rizzoli, Milano 2016, p. 472, € 13

di Gianandrea de Antonellis

La casa editrice Rizzoli, nella storica collana Bur, sta riproponendo i romanzi storici, di argomento religiosi, scritti da Louis de Wohl (1903-1961). Quelle dello scrittore tedesco (ma naturalizzato inglese) sono biografie di uomini illustri (L’ultimo crociato, su don Giovanni d’Austria, l’eroe di Lepanto), di filosofi (La liberazione del gigante, su San Tommaso – il “gigante” è Aristotele, liberato, cioè cristianizzato dall’Aquinate), di santi (La mia natura è il fuoco su Santa Caterina, La città di Dio su San Benedetto, La gloriosa follia su San Paolo, Il gioioso mendicante su San Francesco), tutti personaggi dalla biografia ben nota. In questo caso, invece, l’autore si confronta con un soggetto quasi “mitologico”: il centurione che assisté alla crocifissione di Nostro Signore ed affondò la lancia nel Suo costato per constatarne la morte. Di lui, storicamente, sappiamo ben poco: ci è stato tramandato solo il nome, Cassio Longino, e nulla più. Quasi tutto il resto di quanto ci è noto proviene dalla duecentesca Legenda Aurea di Jacopo da Varazze, che è alla base dell’agiografia corrente e la quale, peraltro, dedica al Santo (ricordato dalla Chiesa il 16 ottobre) solo poche righe, quasi tutte incentrate sul suo martirio, avvenuto alla fine di ventotto anni di vita monastica intrapresa dopo la conversione sul Golgota e la decisione di lasciare l’esercito.
Louis de Wohl – che peraltro decide di incentrare il suo romanzo sulla vita di Longino precedente all’incontro con Cristo – parte quindi da questi scarni spunti per costruire quello che, pur essendo rispettoso dei tratti essenziali dei principali personaggi storici presenti in primo piano (a partire da Ponzio Pilato, naturalmente, e da sua moglie Claudia Procula fino ad Erode e ai membri del sinedrio) e sullo sfondo (Tiberio e il suo intimo ed infido consigliere Seiano), è un lavoro in massima parte di fantasia. Forse proprio per questo, per non essere costretto da troppi “paletti”, riesce a tessere una trama estremamente coinvolgente, che affascina il lettore fin dalle prime pagine e che s’incastra perfettamente nella narrazione dei Vangeli.
Così seguiamo le vicende di un giovane dal brillante avvenire militare e sociale (i Longini erano una conosciuta famiglia dell’aristocrazia romana) che per salvare il padre dalla prigione per debiti decide di offrirsi come schiavo, rinunciando a tutto per pagare gli esosi creditori. Purtroppo il vecchio sarà presto ucciso dal suo persecutore e Cassio vivrà il resto della propria esistenza con l’impressione dell’inutilità del suo gesto e, quindi, con l’unico scopo di riuscire a vendicarsi dei nemici della sua famiglia. Ma su di lui esiste un disegno divino che lo porterà alla redenzione: l’atto di amore nei confronti del padre, lungi dall’essere un sacrificio senza senso – degno di una vita altrettanto senza senso, in cui l’elemento religioso è una pura formalità fatta di sacrifici a divinità che palesemente non esistono – è invece un momento fondamentale per il suo cambiamento esistenziale.
Con una “leggerezza” ante litteram alla Calvino (nel senso di Italo, non di Giovanni!), l’autore fa passare tra le sue pagine alcuni fondamentali insegnamento evangelici che fanno del romanzo un’opera educativa che non rischia mai, però, di essere didascalica (tra parentesi, va notato come questo sia un errore frequente e dal quale poche opere narrative riescono ad essere esenti: tra queste, in Italia, i capolavori di Carlo Alianello). Così seguiamo il protagonista in un percorso di crescita al termine del quale, dopo essersi liberato dalla schiavitù fisica, si libererà da quella morale e religiosa, abbracciando con piena coscienza la vera Fede.


sabato 12 novembre 2016

Francesca K. Matina, "La casa nel vento" (Ed. Thule)

di Giovanni Taibi

Un’ interessante narrazione  a metà strada tra il racconto e la dissertazione filosofica è l'opera prima della giovane scrittrice lampedusana Francesca K. Matina “La casa del vento” edito da Thule (euro 10.)
Con un linguaggio avvolgente l'autrice ci conduce per le vie tortuose e fascinose  del suo pensiero, del suo sentirsi esule in ogni terra che non sia la sua Lampedusa eppure desiderosa di perdersi tra gli sguardi inquieti e le infinite possibilità che la realtà   ci offre.  Questo spiega il suo interesse per  gli aeroporti, luoghi dove si mescolano sentimenti e situazioni vari e molteplici  che l’autrice ama sviscerare al di là delle loro reali apparenze.
"Vorrei vivere un anno in ciascun paese del mondo” dice.
Questa è soltanto una delle tante dicotomie su cui disserta l'autrice , che da fotografa appassionata e competente, posa sempre il suo occhio/obiettivo  attento sul divenire della realtà cercando di cogliere il momento emozionalmente più significativo.
Altro filo conduttore del suo scritto è il valore del dubbio, socraticamente inteso.
“Dicono che siamo pieni di dubbi, noi filosofi, incapaci di darci delle conclusioni.
Ma la filosofia nasce dai dubbi e, proprio per questo, chi la sceglie non deve esaurirli mai, altrimenti finirebbe per arrestarsi a conclusioni necessarie, sottraendo possibilità al contingente.”  ( Cfr pag 59 )
Pertanto per lei l'approdo agli studi filosofici naturalmente costituisce un lento, sofferto, pur tardivo e meditato punto di partenza grazie al quale può riuscire a porsi le domande giuste senza per questo avere la presunzione di trovare le risposte.
Studi filosofici che costituiscono la sostanza del ragionamento, e quindi del libro, che la giovane lampedusana attraversa con dotta profondità a  differenza della moltitudine dei suoi coetanei che ormai delegano la propria coscienza individuale a quella collettiva,  che trova nei social network facile terreno di un effimero vivere, in cui non hanno cittadinanza dubbi e meditazioni ma solo la vuota presenza dell'Esserci.
In una vita apparentemente normale che si svolge tra Lampedusa e Palermo, Francesca K. Matina, ci apre il suo cuore davanti allo stupore della vita, alla profondità dei sentimenti che riesce a cogliere anche nell’anonima persona che occasionalmente incontra nel suo quotidiano divenire.
Gli accadimenti della vita sembrano, alla nostra autrice,  così imprevedibili  eppure necessari : “ L’orizzonte è così vasto, che non possiamo fermarne il flusso di incidenza sulle nostre vite” ( cfr pag. 11)  .
La casa nel vento allora altro non è che il luogo simbolico e isolato dove rifugiarsi per decifrare i molteplici messaggi che la vita ci invia. Dice ancora: “Le parole furono la mia prima casa nel vento, lo spazio privato dove amavo confinarmi.”  ( cfr pag. 11)
Non possono allora che venire in mente le analogie con  i versi di Saba in Trieste in cui poeta ama nascondersi per riflettere : “Ho attraversato tutta la città./Poi ho salita un’erta,/ popolosa in principio, in là deserta,/ chiusa da un muricciolo:/un cantuccio in cui solo/ siedo;”
 Se infine dobbiamo trovare un messaggio allo scritto della Matina lo possiamo trovare nell’invito che nelle pagine conclusive rivolge soprattutto ai giovani: “ Per ritrovarsi bisogna perdersi.  Non abbiate mai paura di smarrirvi, dovunque sarete capaci di arrivare – senza bussola e senza coordinate – vi arricchirà e farà di voi quello che diventerete.” ( Cfr pag. 70)