giovedì 22 dicembre 2016

Postfazioni di Tommaso Romano a Maria Patrizia Allotta, "Il giglio e l'ortica"; Giusi Lombardo "Maredentro"; Maria Concetta Ucciardi, "Il crepuscolo dell'alba" (Ed. Thule)

Nei simboli possiamo leggere i semi della verità.
Nella poesia, quando è autentica fonte di svelamento e conoscenza di sé, l’intima essenza appare e si apre come sostanza e permanenza.
La poesia di Maria Patrizia Allotta si nutre di radici robuste e come canna al vento si mostra in tutta la difficile e, comunque, stupefacente avventura vitale, nutrendosi appunto di simboli, miti, valori che sono altrettante interrogazioni, riflessioni, approdi e ripartenze nel mare dei dubbi, di fragilità delle speranze delle promesse che si rivelano a volte fallaci, dei naufragi inavvertiti e delle scialuppe che sono ancore.
Nel contrasto dell’apparenza spesso aspra e pungente di una natura che si dipana nei fatti perigliosi, ecco il giglio, l’antico fiore della purezza, della bellezza semplice e intatta su cui poter contemplare la rinascita che non muore.
Sì, perché lo scacco può presupporre il nichilismo della resa, dell’abbandono al destino preordinato, mentre la bellezza riscatta e redime se solo non si concepisce come assoluto soggettivo, individualismo incatenante.
In questa metafora del campo di ortiche, spesso aspre e pungenti, e del giglio del vero bene e, quindi, dell’armonia da non obliare al vento delle contingenze, vi è tutto l’universo di una poesia alta e solenne, intima e dolente, forte e umile al contempo che in Maria Patrizia Allotta si acquarella di tinte ora decise, ora impalpabili, facendo stillare una grande sensibilità, un cammino verso la luce non sempre lineare eppure consapevole, alta nella prospettiva straordinariamente esemplare e personale negli esiti stilistici, specchio di una condizione e di un sentire in profondità che può coinvolgere, fino all’interiorizzazione.



Giusi Lombardo transita felicemente dalla ricerca etnoantropolo­gica alla poesia pura, che pare aveva rapsodicamente praticato come alimento vitale.
Il realismo della condizione esistenziale diventa così un canto do­lente e coinvolgente, capace di suscitare sensazioni e partecipa­zioni emotive, liberandosi da incrostanti strettoie per giungere ad una sincera manifestazione, ad uno scenario che ha fatto cadere maschere e infin­gimenti, duellando con la controversia e il dolore, la passione e la rabbia, il candore e la ricerca dell’armonia.
Una esistenza al vaglio, una confessione laica e al contempo sacrale, che si dispiega senza i veli della retorica e le cadute nell’ovvio, trovando l’anima profonda negli anfratti più occulti, in quei raggi di sole che mai più nessuno riuscirà ad estinguere, come scrive.
Il dono del vivere diventa così riscatto e al contempo attesa, a volte amaro e consapevole sorriso, per un Destino che appare ineluttabile nell’infinita notte di tenebre.
Eppure, ecco la poesia, che riscatta e riconquista l’umano, il soffio d’ali, il dono di esserci.
La condizione individuale si stempera nel tempo eterno e senza ingombranti calendari che, comunque, trasforma e fa evolvere verso nuove consapevolezze, nell’attimo che fuggendo, imprime.
È l’anelito della vita, che trova la fonte per non abdicare e scindersi, è l’alba che appare ancora lontano e che pure aspetta la poetessa e, in sostanza, la poesia.



Come un simbolico introibo è quest’opera prima di Maria Concetta Ucciardi che alla poesia si è votata da qualche tempo, con accenti di sincerità e di calda colloquialità.
L’universo degli affetti, delle gioie, degli incontri, delle ansie, dei dolori e delle speranzose attese, si dipana nell’architettura sensibile di un cuore pulsante di umanità.
Senza metafore ardite, con piena attitudine a cogliere il nocciolo delle cose, la Ucciardi sembra a prima vista appartenere ad una schiera di poetesse lontane dal tempo storico, sviluppando una ricerca memoriale e di nostalgiche riflessioni, segnate da un linguaggio che si nutre degli elementi del quotidiano.
Eppure, le tensioni e le domande non si risolvono nell’elegia e la Ucciardi ben conosce oltre il sogno, la ragione che spesso riporta ad una realtà fredda e crudele.
La com-passione assume i caratteri della consapevolezza, il dolore degli altri diventa il dolore universale, le ricorrenze e i luoghi, un ram­memorare.
La natura, la luce, i colori sono veicoli di una magia possibile, se solo li si scopre in essenza, e Pegaso è il simbolo che la Ucciardi ben concepisce, per un volo che s’innalza oltre.
Così la musica diviene un tramite necessario di trascendenza, per la poetessa, così come il canto il lume del buon sapere.
A questo lume la poesia della Ucciardi si vota e si possono cogliere, così nella consapevolezza, le possibilità che la risorgenza dell’arte può proporre agli spiriti bennati.

mercoledì 21 dicembre 2016

Pasquale Attard, due raccolte di poesie: "Il tuo Regno viene", "Dal Califfato al Regno" (Ed. Thule)

di Giovanni Matta

Iniziando a scrivere poesie all'età di 13 anni Attard, malgrado allora così giovane, ha avuto una visione del tutto pessimista della vita.
Nelle sue liriche iniziali ritroviamo innanzitutto l'angoscia della solitudine la noia, l'amarezza, il pianto e – circolare - il dominio della morte.
È una morte che impera, è la falciatrice "che passa senza arrestarsi e senza aspettare"; la morte è uno scempio e persino le stelle sono "gocce di dolore".
È evidente che il poeta ha subito una grave perdita, che lo ha ammesso così al cospetto di un totale pessimismo. E certamente ha influito anche un amore non ricambiato, da cui nasce "il canto d'amore disperato".
Anche il tempo che disillude le speranze e distrugge i giorni è un nemico. La vita per il poeta è un "calice doloroso", è un cammino carico di violenza e di incomprensione. I suoi scritti diventano "poveri versi" (pag. 37) gettati al vento, nel dolore e nel sangue, nella gelosia e nello scoraggiato pessimismo. Questa è la visione iniziale di Attard.
Fortunatamente, maturando, il nostro giovane poeta incontra l'amore, la passione lo travolge "come un mare in tempesta"; arrivano "i giorni belli "e nella fede ritrovata appare la luce profetica per tutti gli uomini.
Si, vi saranno certezze cariche di tanti dubbi, ma vengono ricomposte e diventano vere armonie.
E qui il poeta nella "notte di luna nel bosco" (pag. 17) ci dona un quadro esemplare e suggestivo per descrivere "il bacio tra amanti che senza" ci richiama il Gozzano, ma anche Leopardi.
Può sembrare un paragone ardito, ma questi versi costruiti nel dolore iniziale, maturano nella certezza che è l'uomo col suo libero arbitrio a crearsi il proprio destino e la parola, "il verso", lo aiuta a riconoscere l'unica verità, il trionfo del "Verbo".
E con "Parusia" conclude il volume con un grande inno al Signore, Salvatore del Regno, che dona gioia e pace.
Con la lirica "Il tuo regno viene" (pag. 99) - che dà il titolo al volume  - Attard prende lo spunto dall'apocalisse dell'evangelista Luca per descriverci la fine del mondo e il trionfo del Divino Amore, del Sacro Cuore di Gesù.
È una poesia moderna - quella di Attard - scandita in versi - alle volte liberi - scorrevole, cicale, profonda, ricca di metafore,, ma soprattutto di altri contenuti morali e sociali


In questo nuovo volume di versi ritroviamo un Attard più consapevole della sua scrittura, certamente più attuale, meno pessimista e più ricca di valori importanti per maturare e suggerire una serena vita di pace per tutti.
La sua lirica diventa un canto sublime - ripetuto è convinto – all’amore infinito, all’eccelso, al Dio di tutti, vero "ristoro" e "fiamma d'amore".
Quel Dio che è "balsamo" di pace, che - per il poeta - è anche "padre e madre d'amore".
La sua fede, maturata negli anni, gli suggerisce il richiamo dell'Apocalisse di Luca per ricordare a tutti noi - con la metafora della caduta di Babilonia -che verrà la "grande bufera", che "atterrerà l'impostura dell'uomo", miscredente cieco e ambizioso. Poesia critica quella "Dal Califfato al Regno" (pag. 80) (che dà il titolo al volume e ne rivela il contenuto principale) contro la malvagità degli attentatori di Parigi, contro il male sparso nel mondo dal maligno, per ritornare - convinti nella fede - all'eden ritrovato, al "Divino Eterno" (pag. 103), alla pace universale.
Nei versi ritmati di Attard non mancano i ricordi: la memoria si riveste di poesia, ritorna la giovinezza, "rivedere quegli occhi belli", - oblio impossibile - Porticello, la strada antica, "La vela" (pag. 13), la dipartita dei cari, la vittoria delle croci (pag. 99).
E poi una sequela di dediche: da quella al Papa Francesco, a quella a Giovanni Falcone, un'armonica sinfonia celeste che parte dalla risacca del mare verso l'Ave Maria del Cielo (“Concerto del mare" (pag. 97)).
Ed ancora dediche: alla madre - canto forestiero - a Marilyn - luce assassina sesso e droga -, (pag. 78) a William  Wordsworth (pag. 86) – Dolcissimo arpeggio – all’amica Anna Messineo (pag. 72), il dolce sorriso è nel sole -  a Franca Curcio (pag. 24) – Andartene leggiadra ed ascosa , - ad Antonio Succi (pag. 101) – il fiume del male richiede mercede -.
E poi "un saluto amichio… Al vecchio felino" in ricordo del suo gatto Silvestro.
La poesia di Attard è quasi classicheggiante, è ricca di valori universali; e come tale apre le menti alla "grande luce" che discende dal cielo, all'eterno "desiderio di pace" che si ha solo cercando e credendo in Dio.


martedì 20 dicembre 2016

Mariolina La Monica, "Vagheggiando Itaca" (Ed. Thule)


Prepararsi al Natale rileggendo “Il padrone del mondo” di R. H. Benson

di Luca Fumagalli

«Questo libro produrrà senz’altro sensazioni di sconforto e sarà (per ciò e per altri motivi) oggetto di ogni tipo di critica; ma mi è sembrato che il mezzo migliore per esprimere valori e principi che mi stanno a cuore e che io credo veri e infallibili fosse quello di tradurli in avvenimenti che possono commuovere». Con questa premessa Benson introduce il lettore nel mondo futuristico de Il padrone del mondo.
Alla fine del XX secolo l’uomo ha raggiunto gli estremi confini del progresso materiale e intellettuale. La vittoria del socialismo, l’eliminazione della guerra, la legalizzazione dell’eutanasia, l’adozione di cibi artificiali e l’uso dell’esperanto come lingua internazionale sono solo alcuni degli elementi che caratterizzano la nuova realtà. Con il trionfo dell’umanitarismo laico le religioni sono ormai quasi completamente scomparse. Il cristianesimo ha ritrovato la sua unità nel cattolicesimo, ma il modernismo e il complesso di inferiorità rispetto alla cultura dominante – alimentato da alcuni intellettuali – hanno dato il via a un’apostasia di massa che ha ridotto gravemente il numero dei fedeli. Il Papa, pur avendo riacquistato il controllo della città di Roma, da cui è bandita ogni tecnologia, rimane isolato sul piano internazionale.
I due protagonisti del romanzo non potrebbero essere più diversi: Julian Felsenburgh, socialista e massone dall’oscuro passato, governa l’intero Occidente grazie alle brillanti doti di oratore e alla personalità magnetica, mentre Percy Franklin è uno degli ultimi sacerdoti rimasti fedeli alla Chiesa, recentemente colpito dalla defezione di tanti confratelli tra cui l’amico Francis. Il terzo polo narrativo è costituito dai coniugi Mabel e Oliver Brand, militanti politici e accaniti sostenitori del progresso; davanti alle prime persecuzioni dei cristiani mostrano però una disillusione crescente. Mabel, stanca di una vita che appare senza senso, opta addirittura per il suicidio assistito.
Quando a Westminster viene scoperto un complotto ordito dai cattolici per far esplodere la cattedrale durante la celebrazione delle nuove festività laiche, Felsenburgh getta la maschera e decide di distruggere Roma. Tocca a Percy, nel frattempo eletto papa, affrontare una situazione apparentemente senza scampo: il misterioso politico americano è infatti l’Anticristo profetizzato dalle Scritture.
Nonostante la pubblicazione risalga al 1907, Il padrone del mondo è uno strumento utilissimo per decifrare la contemporaneità. Il legame con il presente emerge nel momento in cui l’autore individua come male della modernità non tanto le ideologie storiche – nel testo il socialismo passa rapidamente in secondo piano – quanto l’umanitarismo, una sorta di religione spuria, senza Dio, che fa appello a istanze tipiche del cattolicesimo per svuotarle dall’interno, pervertendole nel significato: come la tolleranza religiosa si tramuta in laicismo, anche la carità diventa una solidarietà generica e senz’anima. É un sovvertimento progressivo, lento e silenzioso, teso a ridurre tutto a un livello meramente umano. Ben presto anche la patina pacifista si sgretola per lasciare posto all’intolleranza e alla violenza.
L’essenza dell’umanitarismo, il nuovo pensiero unico dominante, è la sostituzione di Cristo con l’uomo. È lo stesso orribile sofisma che è a fondamento del grande rifiuto di Satana e del peccato d’Adamo. Il «Non servirò» del demonio è il motto del mondo distopico immaginato da Benson. Come ricorda il filosofo Augusto Del Noce, che ebbe a lodare la forza profetica del romanzo, «la secolarizzazione cerca la propria giustificazione ultima col porsi come strumento, unico strumento, di liberazione e di emancipazione umana da ogni forma di alienazione e di servitù».
Anche il riferimento alla massoneria, un’istituzione iniziatica sorta nell’Inghilterra del XVIII secolo, si inserisce nel medesimo tracciato. Il mondo pronosticato dallo scrittore inglese obbedisce alla logica agnostica della filosofia massonica per cui l’inconoscibilità del divino è presupposto all’impossibilità di una legge morale condivisa. Il nuovo e corrotto umanesimo è quindi l’esaltazione luciferina dell’egoismo, dell’elevazione dell’uomo a re e giudice di se stesso. La massoneria detiene il ruolo di fucina delle idee, una sorta di contro-Chiesa il cui compito è quello di spargere i germi della rivoluzione anticristiana. Dietro l’aspetto innocuo si nasconde il lato oscuro di una malattia spirituale che contamina il globo. La pace globale non è l’esito della cristianizzazione, come avveniva ne L’alba di tutto, ma il frutto di un’obnubilazione collettiva, di un diffuso disinteresse verso qualsiasi ricerca di senso e significato: quando Mabel si confronta seriamente con le aspirazioni del suo cuore, scopre un vuoto così incolmabile da spingerla al suicidio. L’annientamento di ogni residuo di umanità anticipa di poco la distruzione della terra.
La venuta di Cristo, al contrario di quella di Felsenburgh – il cui nome suggerisce una sinistra ambiguità –  provoca una profonda frattura tra uomo e mondo: «Non crediate che io sia venuto a portare la pace sulla terra. Non sono venuto a portare la pace, ma la spada» (Mt. 10, 34-38). Una separazione che, se da una parte genera il dramma, dall’altra restituisce il sapore della vita, fatta di quegli imprevisti che avvicinano alla consapevolezza di dipendere da altro. Al contrario, nel libro si assiste alla negazione di sé e dei propri desideri con il risultato che i protagonisti diventano rarefatti, fantasmi simili agli abitanti della Terra desolata di T. S. Eliot.
Il padrone del mondo, l’appellativo biblico dell’Anticristo, è un titolo così evocativo da assommare in sé il senso dell’opera narrativa di Benson. Felsenburgh rappresenta al massimo grado la tentazione del male e dell’autocompiacimento tipica di un’anima ferita dal peccato originale, la stessa tentazione che fu dei sovrani inglesi ai tempi della Riforma o degli uomini e delle donne dell’Inghilterra vittoriana.
In egual misura il romanzo nasconde dietro i colori della finzione letteraria una cristallina fotografia del XXI secolo. La nuova religione, con feste e riti codificati celebrati da sacerdoti apostati, come tante mode contemporanee è un pallido tentativo di corrispondere alle aspirazioni spirituali dell’umanità. L’opulente società del futuro, al pari di quanto scritto nel libro del profeta Daniele – a cui Il padrone del mondo ammicca in più punti – «sarà la desolazione dell’abominazione» (Daniele 9, 27).
Quando fa la sua comparsa l’affascinante politico americano, si è toccato il fondo della malvagità. Alimentato dai peccati delle nazioni, l’Anticristo può finalmente incarnarsi per condurre l’attacco finale al cristianesimo. Con sarcastica inversione, tutti lo acclamano come il salvatore e qualcuno già lo considera un dio, il «dominus et deus noster».
L’unica residua opposizione è costituita da Percy Franklin, nascosto a Nazareth con i pochi cattolici sopravvissuti alle persecuzioni, dove tutta la storia della salvezza ha avuto inizio. Felsenburgh organizza quindi un piano d’attacco per annientare i pochi superstiti; ma, esattamente come per Cristo agonizzante sulla croce, anche per la Chiesa il momento della sconfitta coincide con la più grande vittoria. Il male non può trionfare. Mentre le bombe sganciate dagli aerei radono al suolo il piccolo villaggio della Galilea, si compie ciò che era stato profetizzato: giunge la fine del mondo, la seconda venuta di Dio, la Vita eterna per tutti coloro che hanno sofferto in Suo Nome. Alla fine le porte dell’inferno non hanno prevalso.



lunedì 19 dicembre 2016

Tommaso Romano, "Elogio della Distinzione" (Ed. Thule)

di Sandra Guddo

Nel mondo della globalizzazione suscita stupore se non addirittura sospetto affermare con tutta tranquillità che non ci si sente “ cittadino del mondo “ né  tantomeno invaso dallo spirito cosmopolita. Un’affermazione forte che distingue in un modo o nell’altro chi ha avuto l’ardire, andando contro vento, di pronunciare una frase siffatta.
Ma se a farlo è Tommaso Romano allora tutto ciò ha un senso!
“ L’Elogio della Distinzione “ infatti vuole essere ed è l’elogio rivolto a chi si distingue dalla massa amorfa ed uniforme, di chi si tira fuori dalla greppia, prendendo posizioni nette ed inequivocabili, fuori dai sofismi e dall’ambiguità, di chi pur ricercando la sintesi, rifiuta il sincretismo che attualmente sembra allargarsi a macchia d’olio su tutte le questioni più importanti del mondo: da quelle politiche  a quelle economiche e perfino alle questioni che afferiscono alla sfera più intima e privata del genere umano .
Ciò inevitabilmente va a toccare temi delicatissimi come l’unione dei generi, una volta rigorosamente distinti ed identificabili, coinvolgendo, in tale miscuglio shakerato, lo stesso concetto di genitorialità che, come ha recentemente affermato Jorge Mario Bergoglio, rappresenta un attentato alla famiglia e alla tradizione e che seguendo queste idee “si rischia un passo indietro “ , fino ad arrivare sull’orlo del baratro!
In tal senso vanno anche i recenti studi di Aurelio Pace e Carlo di Pietro che nel loro volume “ Gender  ascesa e dittatura di una teoria che non esiste “ ( 2016) liquidano con argomentazioni lineari la teoria del gender che non ha trovato riscontri scientificamente dimostrabili, riaffermando il concetto della distinzione dei generi così come sociologicamente sono riconoscibili. Come ha sottolineato, fuori da ogni posizione omofoba, Giuseppe Bagnasco nella sua recensione, “ il progressismo ha condotto all’innaturale livellamento sessuale “ portando l’umanità ormai imbarbarita al disconoscimento dei valori fondanti della società civile.
Anche in tal senso va dunque elogiata la distinzione, “ fermo restando che attraversiamo tempi apocalittici che hanno il prepotente obiettivo del sovvertimento verso una profonda, perniciosa modificazione antropologica”.
 Tommaso Romano non esita, contro tutte le recenti teorie che parlano di un’uguaglianza falsamente umanitaria, a sostenere che è aristocratico colui che si distingue.
Non a caso Egli, nel Florilégio di Autori che costituisce la seconda parte del suo corposo volume, riporta l’energica affermazione di Nicolas Gomes Davila  “L’uguaglianza è la condizione psicologica preliminare delle carneficine fredde e scientifiche”.
 Concorda con tale affermazione Giovanni Taibi nella recensione all “ Elogio “ in quanto chiarisce che “ l’uguaglianza intesa come obiettivo supremo da raggiungere per un popolo che vuole definirsi civile “ è autodistruttivo per lo stesso popolo.
 Chi si distingue è un aristocratico inteso non nell’ accezione più diffusa che viene attribuita a tale sintagma la cui etimologia è nota a tutti: “ aristòs e cratòs” cioè potere ai migliori che ha portato, durante i secoli, ad una significazione della parola aristocrazia restringendola fondamentalmente alla sola sfera politica; tanto è vero che nell’antica civiltà greca vennero coniate altre parole per delineare tutte le possibili forme di governo della polìs: monarchia, oligarchia e democrazia.
E’ utile non trascurare questi concetti – base ma nell’ “Elogio della distinzione “ il filosofo Tommaso Romano conduce un’analisi ad ampio spettro che allarga il concetto di aristocrazia, finora intesa  come una delle tre classi sociali in cui era diviso il popolo, accanto a borghesia e terzo stato o proletariato, al concetto di distinzione; ciò in quanto sono i migliori che si distinguono per i loro meriti, rivelando nobiltà d’animo, signorilità, gentilezza e sono interpreti di cortesia e cavalleria, di raffinatezza e buongusto contro la dozzinalità, la serialità, la rozzezza e la volgarità. In sintesi, per dirla con il sommo Poeta “ La stirpe non fa le singolari persone nobili, ma le singolari persone fanno nobile la stirpe “.
 Sono i migliori che si affermano in un campo o nell’altro attraverso il talento che è innato; ma ciò non può bastare: occorrono impegno e determinazione per evitare che il proprio talento non venga sprecato, oscurato, sepolto da una vita ordinaria e senza una giusta ambizione. Già in una bellissima ed esemplificativa parabola del Vangelo, narrata secondo  Matteo ( 25, 14- 30 ) si parla dei  talenti, monete in quel tempo in circolazione. Il messaggio della parabola è inequivocabile: va lodato colui che sa far crescere il proprio talento e non chi, per eccessiva prudenza o forse per pigrizia, lo seppellisce senza ricavarne nel tempo alcun frutto.
Ecco che allora la nobiltà d’animo può appartenere a chiunque anche al più piccolo ed insignificante degli uomini purché si distingua per l’impegno, per la serietà, per la professionalità e, consentitemi di aggiungere, per l’amore con cui svolge il suo ruolo nella visione complessiva del cosmo, “ la cui bellezza, a ben guardare si può rinvenire anche in un filo d’erba “.
Tommaso Romano non ci tiene proprio ad essere genericamente ritenuto “un buonista” o peggio “cittadino del mondo”, non di questo mondo almeno, in cui i poteri forti di potenti lobby economico – finanziarie hanno iniziato uno strisciante appiattimento della distinzioni: addio alle ideologie in antitesi, addio alle peculiarità di un popolo in nome di mode che appiattiscono i nostri gusti anche a tavola e ci vengono propinati cibi seriali  a favore di un’economia senza scrupoli che, nel tempo ha saputo indebolire i popoli  trasformando le nostre democrazie in palcoscenici della menzogna ; sono state precarizzate le nuove generazioni rendendo i nostri giovani una categoria indifesa di fronte al problema del lavoro; è stata impoverita la media e piccola borghesia per non parlare dell’aristocrazia che è stata confusamente cancellata con un colpo di spugna sostituita da una feroce dittatura sovranazionale che conosce una sola parola: il profitto !
Ma  Tommaso Romano non ci sta ed in coerenza con quanto esposto nel suo manuale “ di sopravvivenza, preferisce restarsene in santa pace nella sua casa, dove ogni cosa ha un valore intimo e spirituale in compagnia dei propri cari e di pochi e selezionati amici con i quali sarà possibile incontrarsi anche al Cafè de Maistre a discorrere di filosofia o di storia o semplicemente a gustare un buon caffè o qualche delizia pasticciera, ammirando il mare che si scorge dalla vetrate in stile liberty del cafè.
Da Lucio Enneo Seneca il nostro Autore ama ribadire che ha imparato l’esortazione ad una vita umile e sobria ma il grande pensatore iberico non poteva ancora sapere che la  sobrietà, un termine oggi molto apprezzato, in fondo non è che una delle quattro virtù cardinali: la temperanza. Così la pensa Antonio Nanni nella sua opera “ La sobrietà come stile di vita” ( 2003 ) allorché afferma che “ La sobrietà è il nuovo nome della temperanza ( … ) chi agisce nella temperanza non è smodato, eccessivo, ingordo, sregolato ma è persona semplice ed essenziale in tutto, perché sa ridurre, recuperare, riciclare, riparare, ricominciare. La sobrietà è in questo senso la virtù del futuro “.
Risulta quindi necessario cominciare a liberarsi da tutto ciò che è di troppo, dalle ridondanze per puntare all’essenziale. Tale leggerezza soltanto apparentemente sembra contrapporsi alla ponderosità dell’opera ( quasi duecento pagine ) , divisa in tre corpi :
1.      Saggio dell’Autore che è, come Egli stesso la definisce, una “ Apologia della Condizione Singolare “.
2.      Florilegio di Autori, arricchito da immagini che ritraggono gli antichi Cavalieri disposti a tutto, pur di salvare i Luoghi Santi dal dominio degli infedeli, pronti a combattere fino alla morte “ perinde ac cadaver “.
3.      Saggio di Amadeo – Martin Rey y Cabieses, composto appositamente per “ L’Elogio della distinzione”.
Tommaso Romano, nell’Elogio della Distinzione, conduce una speculazione filosofica che diventa un vero manifesto di ecosofia in quanto attribuisce grande valore all’ambiente ed in particolare alla casa in cui si vive che diventa lo specchio della nostra scala valoriale. Un’abitazione, anche modesta purché sia personalizzata da “cose non oggetti “ raccattati dove capita ma scelti ad interpretare  il nostro gusto, le nostre passioni ed inclinazioni,  in sintesi il nostro percorso esistenziale fino a conferire alla nostra casa un’impronta inconfondibile, un’anima.
Rispetto alle opere precedenti nell’ Elogio della Distinzione, la dissertazione filosofica, pur nella complessità del suo pensiero, diventa quasi colloquiale e si notano un alleggerimento del fraseggio ed una lievezza narrativa che rientrano, a mio parere, in quel naturale percorso ascetico ed ascensionale che Tommaso Romano sta compiendo da” quel buon cristiano di fede qual è “  per ritornare al punto di partenza, là dove tutto ha avuto Origine.

Il libro si chiude nel modo migliore, con un cortese Congedo al Cafè de Maistre per ritirarsi, come un anacoreta occulto, nel silenzio di un eremo immaginifico, in attesa e nella speranza del ritorno alla Tradizione, del divino intervento provvidenziale e della Parusia.

venerdì 16 dicembre 2016

Buon compleanno, Don Camillo!

di Giovanni Lugaresi
Le mani dei sacerdoti sono fatte per benedire, non per percuotere, comprese quelle del personaggio letterario protagonista del guareschiano ”Mondo piccolo”: don Camillo. Ed è in questa osservazione-intimazione da parte del Cristo crocefisso dell’altar maggiore che va verso l’epilogo il primo dei 347 racconti ambientati in quella fettaccia di terra compresa fra Po e Appenino, un “mondo piccolo”, per l’appunto, che si è però dilatato, nel tempo, ai quattro angoli del “mondo grande” conquistando milioni e milioni di lettori, in ciò favorito anche dalla serie di film interpretati da Fernandel e Gino Cervi.
Il racconto si conclude con una emblematica pedata, forse la più famosa della letteratura contemporanea, assestata a Peppone che la sta aspettando e che rappresenta un che di liberatorio per entrambi i personaggi: il prete e il capo dei rossi…
Ma perché siamo qui a rievocare quel primo capitolo della saga guareschiana? Semplicemente perché fra gli anniversari significativi a livello culturale di questa fine d’anno 2016, ce n’è uno caro a tantissimi lettori, di ieri e di oggi. “Don Camillo” compie 70 anni.
Nasceva infatti a Milano, il 28 dicembre 1946, il popolare personaggio creato da Giovannino Guareschi, che avrebbe dato il titolo a libri e film. Nasceva sulle pagine del numero 52 del settimanale Candido, ma in realtà, come lo stesso autore avrebbe successivamente detto, era nato “il 1° Maggio 1908, assieme a me”, e all’insegna del Mondo piccolo, appunto…
Come fosse andata la vicenda alla vigilia di quel 28 dicembre di settant’anni anni fa, ugualmente l’avrebbe spiegato ancora Guareschi nell’introduzione a “Don Camillo e il suo gregge” – il secondo libro della saga della Bassa. A causa delle feste, “bisogna finire il lavoro prima del solito. Bisogna ‘anticipare’. Oltre a compilare il ‘Candido’ scrivo dei raccontini per ‘Oggi’ e così, questa antivigilia mi trovo, come al solito, nei guai fino agli occhi: è già sera e io non ho ancora scritto il pezzo che manca per completare l’ultima pagina del ‘Candido’. Sono appena riuscito a scrivere, nel pomeriggio, il pezzetto per ‘Oggi’ che è già stato composto e messo in pagina.
Bisogna chiudere subito il ‘Candido! Mi dice il proto. Allora mi faccio cavar fuori il pezzetto da ‘Oggi’, lo faccio ricomporre e lo butto nel ‘Candido’.
“Sia come Dio vuole!”, esclamo. Poi, siccome per l’altro settimanale c’è ancora una mezz’ora di tempo, scribacchio una storiella qualsiasi e tappo anche quel buco rimasto.
E Dio ha voluto che succedesse quello che è successo. Infatti, il primissimo racconto di Mondo piccolo è il raccontino che avevo destinato a ‘Oggi’. E che, se fosse uscito in quella sede, sarebbe finito lì, come tutti gli altri raccontini, e non avrebbe avuto nessun seguito.
Invece, appena l’ho pubblicato sul ‘Candido’ mi arrivano tante e poi tante lettere da parte dei miei ventiquattro lettori, che scrivo un secondo episodio sulle vicende dei suoi personaggi della Bassa”…
Fu “Peccato confessato”, con la pedata finale del sanguigno prete al capo dei rossi, come già avvertito…
E avanti, dunque, fino ad arrivare a 347 racconti, che costituiscono la narrazione di un “Mondo piccolo” destinato a dilatarsi ai quattro angoli della Terra.
“Peccato confessato” avrebbe aperto anche il primo libro di trentasette racconti pubblicato da Rizzoli (prima edizione marzo 1948, seconda edizione maggio 1948), caratterizzati da un successo a cascata, per così dire. Sì, e in due sensi. Il primo: Guareschi fu praticamente… costretto a inventarsi altre storie per far camminare lungo le strade della Bassa (e oltre) i suoi due personaggi: don Camillo, il manesco parroco politicizzato, ma tutto fede e amore per la sua gente, e il polemico sindaco capo dei rossi, Peppone, del pari legatissimo al paese – con la non certamente secondaria “aggiunta” del Cristo crocefisso che parla, raffigurante la coscienza cristiana dell’autore.
Il secondo: al successo in patria, fece seguito quello a livello internazionale, con i racconti sul prete e il sindaco comunista tradotti in cinquanta lingue (manca il cinese, a tutt’oggi) – e con l’aggiunta dei film con impareggiabili interpreti Fernandel e Gino Cervi.
All’insegna del “Mondo piccolo”, che è un paese dell’anima, prima di esserlo… fisicamente, materialmente, con i suoi ritmi, gli usi, le tradizioni, e la lotta politica, ben s’intende, in primo piano, Guareschi avrebbe scritto, come detto, ben 347 racconti, sparsi in diversi libri e quindi raccolti, a cura dei figli Alberto e Carlotta, in tre volumi licenziati da Rizzoli, l’editore col quale Giovannino aveva incominciato a pubblicare nel 1936 (ottant’anni fa: un altro importante anniversario!) e che ha stampato poi i libri postumi, nonché nuove edizioni di quelli vecchi, in presenza di un successo che continua nel tempo.
Ma in virtù di quali elementi, “Don Camillo” ha conquistato milioni e milioni di lettori in Italia e ai quattro angoli della Terra?
In virtù di caratteristiche ben precise: la dialettica, la polemica, lo scontro politici, certamente e innanzitutto; poi quel saper ambientare figure ed eventi in un habitat rurale dove fra campi di grano e fattorie, vigne e prati, scorre il grande fiume, che è il Po; ancora, il sapere tratteggiare quelle figure medesime con segni inconfondibili, sia a livello fisico, sia a livello psicologico. E senza contare come, attraverso queste pagine, si venga a contatto con la realtà italiana, politica, sociale, del costume, a partire dall’immediato dopoguerra, caratterizzato da odi non sopiti, desideri di vendetta, nefandezze varie, ma sulle quali Guareschi stende come un velo di profonda pietas, che viene dal cuore, dall’anima.
Non ultima, l’invenzione del Cristo crocefisso che parla con il suo ministro, e lo redarguisce, anche duramente, per gli errori-peccati che commette.
Ma non è finita. Perché ci sono poi le “ragioni” della letteratura e quelle del… cuore. Le “ragioni” della letteratura vanno ricercate in quella prosa immediata, diretta, essenziale, aderente alle cose, ai personaggi, agli eventi e a quella che è stata definita “l’invenzione del vero”.
Quelle del cuore affondano in una umanità che prevale sempre sull’ideologia, e per fare soltanto un esempio citeremo il racconto dell’agonia, della morte, del funerale della “maestra vecchia”, che sulla cassa vuole la bandiera, la “sua bandiera”, con “lo stemma”, che è poi quello sabaudo!
Ora, il lettore non prevenuto non penserà alla fede monarchica di Guareschi, nell’imbastire questa vicenda, ma ad altro. E cioè che Peppone, benché comunista, sentiti gli interventi, dei vari capigruppo in consiglio comunale, alla fine compirà il grande gesto (prevaricatore, certo, di fronte ai pareri contrari di tutti) di decidere per il rispetto delle ultime volontà della maestra vecchia, in ciò dimostrando, appunto, una umanità che prevale sull’ideologia, il rispetto per la persona e le sue ultime volontà, pur non condivise!
I racconti del “Mondo piccolo” sono poi all’insegna di una fede autentica, forte, quale poteva essere quella di un cristiano cattolico che seppe coniugare nella sua non lunga, ma spesso sofferta esistenza (dall’esperienza dei lager nazisti alla galera italiana), credo religioso e senso di libertà. Una fede semplice, ma vera, appunto, proclamata e testimoniata, che gli avrebbe ispirato pagine non dimenticabili, non soltanto per quel che riguarda la saga del “Mondo piccolo”. Non a caso, il primo volume di “Don Camillo” si conclude con un’immagine di straordinario respiro e di vivo coinvolgimento spirituale. Del resto, è proprio scorrendo pagine come queste che si può pensare alla propria anima e riecheggiando le espressioni del Libro di Qoelet ripetere: “Vanitas vanitatum, et omnia vanitas…”.
Ma, ecco… Se non è frequente trovare, in un’opera letteraria, la presenza del Natale espressa con intensità di fede e un soffio di delicata poesia, si vada a leggere Giovannino Guareschi. Che nell’incarnazione di Dio che si fa uomo per il bene degli uomini ci credeva a tal punto da scrivere addirittura ben due “Favola di Natale”, e di dedicare all’evento diverse altre pagine. A cominciare, come si è detto, da quel finale di “Don Camillo” (il primo volume) nel quale Peppone, in una brumosa serata novembrina, andato in canonica a confidare certe sue preoccupazioni al parroco, si trova tra le statuine del presepe. Il vecchio prete sta lavorando infatti in largo anticipo sui tempi, perché – dice – Natala arriva in fretta cogliendoti magari di sorpresa.
Eccolo, dunque, ricevere la visita del sindaco e capo dei rossi, mentre sta ripulendo e sistemando le statuine della sacra rappresentazione…
Allora prende il Bambinello e un pennellino, affidandoli a Peppone per i ritocchi necessari di pulizia e di coloratura. Incombenza alla quale il nostro omone non si sottrae, anzi…
E uscendo, annota Guareschi, “Peppone si ritrovò nella cupa notte padana, ma oramai era tranquillissimo, perché sentiva ancora nel cavo della mano il tepore del Bambinello rosa”.
L’epilogo del racconto, non v’è chi non veda, poi, essere all’insegna di una fede semplice e forte: “il fiume scorreva placido e lento, lì a due passi, sotto l’argine, ed era anch’esso una poesia: una poesia cominciata quando era cominciato il mondo e ancora continuava.
E per arrotondare e levigare il più piccolo dei miliardi di sassi in fondo all’acqua, c’erano voluti mille anni.
E soltanto fra venti generazioni l’acqua avrà levigato un nuovo sassetto.
E fra mille anni la gente correrà a seimila chilometri l’ora su macchine a razzo superatomico e per fare cosa? Per arrivare in fondo all’anno e rimanere a bocca aperta davanti allo stesso Bambinello di gesso che, una di queste sere, il compagno Peppone ha ripitturato col pennellino”…
Don Camillo ha 70anni? Sì, ma non li dimostra, come si suole dire, per chi è, pur avanti con l’età, ancora fresco, pimpante e gradevolissimo. E’ il caso, appunto, fra tanta letteratura da gettar via, della creatura (delle creature) di Giovannino Guareschi.
Felicitazioni e auguri, dunque!

da: www.riscossacristiana.it