mercoledì 31 agosto 2016

Tommaso Romano, "Tempo dorato" (Ed. Quanat)

di Giuseppe Saja


Leggendo le opere di Tommaso Romano, soprattutto quelle saggistiche, ho avuto sempre conferma del fatto che di un intellettuale ‘onesto’ possiamo non condividere l’ideologia di fondo o, come dire, i principi della sua weltanschauung; ma ci si può ritrovare ad approvarne alcune letture dell’esistenza e dell’esistente, in forza di quella capacità, che appunto solo gli intellettuali ‘onesti’ hanno, di mettersi in discussione, di riconsiderare assunti precedenti, di proporre analisi, guidati non già da apodittiche e sterili acquisizioni, ma da un sapere in fieri, che alimenta quella qualità, ahimè ormai così rara e preziosa: il buonsenso, abissalmente lontano dal senso comune, da quelle pseudo verità ovvie, banali, frutto di poco pensiero e ancor più limitata meditazione. Ecco perché, anche se piuttosto lontano dal conservatorismo, sia pure illuminato, di Romano, mi ritrovo spesso nelle sue osservazioni, nei suoi giudizi sulla società dei nostri giorni, nel suo modo di renderli pubblici attraverso i versi di una poesia o la scrittura saggistica. E poi, le letture, diciamo, di destra, che in questo volume Romano presenta, ad esempio del Sessantotto, si avvicinano, certo non coincidendo, alle considerazioni e alle critiche che dal mondo della sinistra meno radicale ormai sullo stesso periodo si propongono. Certo, è riconoscibile l’ironico imprinting ideologico di affermazioni come questa: «Non amai i simboli lontani di guerriglieri sudamericani, né la barba del profeta di Treviri, né la “rivoluzione di Mao. La mia generazione in gran parte s’illuse di stare con il senso della storia. Gli speculatori di sogni e di utopie stettero al gioco»; ma non possiamo non essere d’accordo con le parole riguardanti la lebbra della mafia, devastante a partire dagli anni Settanta del secolo scorso: «La morte a Palermo divenne regola amara. Non solo i regolamenti di conti fra i clan; ma persino i delitti eccellenti. Una lunga teoria di lutti. Molta retorica, pochi fatti alternativi». Non mi sono sorpreso, come non lo è stato il prefatore del volumetto Tempo dorato, Matteo Collura, che Romano abbia voluto ricomporre, tra edito e inedito, gli scritti più ‘narrativi’ della sua produzione, poiché pure essi vengono alimentati, e non potrebbe essere altrimenti, dai fiumi tutt’altro che carsici, anzi ariosamente impetuosi e prolifici, della sua vena lirica e di quella saggistica. Quelle due fonti trovano una felice sintesi in questo volume autobiografico, una misura che dimostra, come avvertito anche da Collura, evidenti capacità di narratore, di affabulatore della parole scritta, di sapiente manutentore del vocabolario, per dirla con un’espressione del mai troppo ricordato Antonio Castelli. È mia abitudine nel leggere un libro, e non solo quando devo scriverne o parlarne, annotare nelle ultime pagine bianche o “macchiate” dalle indicazioni di stampa, l’antico colophon, le frasi, i concetti, le espressioni per me notevoli, le suggestioni che ne nascono, anche le citazioni esplicite o implicite da altri scrittori o poeti: è un sondare il laboratorio creativo di un autore nel tentativo di scandagliare i livelli via via più profondi del suo lavoro. Ecco, nel fare questo con il volume di Tommaso Romano, mi sono reso presto conto di stare annotando praticamente quasi ogni pagina: non mi succede spesso e credo che ciò sia avvenuto per i contenuti coinvolgenti del volume e per le forme distese che li assecondano, per quel piacere del raccontare e del raccontarsi, per dirla con il sottotitolo. Intanto, quello che colpisce è la capacità di ricreare un’atmosfera, un ambiente, una situazione, un personaggio con poche pennellate di parole, che hanno spesso una pensosa densità anche a dispetto della loro carica connotativa; poi l’abilità di fare riaffiorare nostalgicamente, ma senza cedimenti patetici, quella Palermo d’antan, deturpata dalle esecrabili trasformazioni che subì già agli inizi del “sacco”, che ne cambierà i connotati, lasciando solo vaghi, sparuti e immobili ‘fercoli’ della sua anima liberty. Quel trapasso coincise, in qualche modo, con i riti di passaggio dell’uomo Romano dalla fanciullezza, soprattutto, all’adolescenza e poi alla maturità: dal tentativo, coronato dal successo grazie ad una superiore complessione fisica, del dodicenne Tommaso di guadagnare l’ingresso del cinema “Corallo” per vedere un film vietato ai minori di quattordici anni, alla ‘conquista’, avvenuta a tredici anni, dei “calzoni lunghi”, precedute, entrambe le esperienze, dai primi turbamenti, non proprio amori ancillari, che già a sette anni il nostro ebbe modo di provare, in compagnia di alcuni coetanei, nell’ammirare di nascosto le nude grazie della giovane e bella cameriera della nonna in Contrada Muffoletto a San Cipirrello (Palermo). Ma il volumetto è soprattutto la storia di una precoce maturazione culturale e intellettuale avvenuta sotto le ali delle predilezioni poetiche: il Futurismo soprattutto e autori quali Nietzsche ed Evola, poi rivisitati in modo personale. Un apprendistato intellettuale, dunque, che influenzerà le scelte politiche di Romano, facendone un amministratore atipico, poco legato alle poltrone, pronto a mettersi da parte quando i suoi mandati avrebbero dovuto mantenersi a prezzo di inaccettabili compromessi. Dunque, con assoluta padronanza dei mezzi espressivi, Romano incrocia dati memoriali con analisi coscienziali ed eventi socio-politici, e con la sapienza di un regista cinematografico (dalla decima musa egli attinge alcune formalizzazioni dei suoi ricordi) riesce a intersecare interni di famiglia con le vicende più significative della storia, non solo isolana, della seconda metà del secolo scorso. Quei quadri di vita, quelle aperture memoriali incardinano episodi e situazioni intorno ai valori che Romano riconobbe e riconosce fondanti, la famiglia su tutti. E allora, il “tempo dorato” delle lunghe vacanze estive alla scoperta del mondo, i bagni negli stabilimenti palermitani di Romagnolo, prima che Mondello assurgesse agli onori delle cronache balneari, le visioni cinematografiche domenicali precedute dalle passeggiate in una Palermo non ancora devastata dal cemento e dall’abusivismo, rompono i confini dei ricordi personali e ci consegnano le maliose immagini di una città, neanche troppo lontane, che lasciano, soprattutto a chi quei tempi non ha vissuti, la percezione di un ritmo di vita diverso, di un’essenzialità dell’esistere pur nelle differenze di censo e di possibilità sociali, una ciclicità biologica e non meccanica, anonima, disumanante. Sono cartoline non oleografiche, quelle che Romano ci propone con un certo sapore vintage, con quelle tonalità pastello che si ravvivano quando l’ectoplasma del ricordo viene attraversato dalla lama tagliente della ragione. Su tutto, si accampano alcuni personaggi indimenticabili, sapientemente cesellati con il bulino di una scrittura che chiama a raccolta tutto il mestiere e le competenze sin qui accumulate. Sono personaggi e non caratteri quelli che l’autore fa materializzare, che prendono vita dalla nebulosa della memoria per presentarsi ai lettori con tutta la loro umanità non convenzionale, con le loro stranezze e peculiarità: come dimenticare la “zia Maria”, al secolo Maria Randazzo, attrice non di fama, come ci ricorda Romano, ma che la sua passione onnivora per il teatro riuscì a trasmettere a Palermo a tante generazioni per tutto il Novecento; o Don Peppinello, improvvisato quanto improbabile automedonte, che riusciva a rendere periclitanti ma avventurosi i viaggi più tranquilli e potenzialmente rilassanti. Romano ci propone le prime “Epoche”, per dirla con Alfieri, della sua autobiografia; nel senso che volutamente egli ha ordinato i primi ricordi d’infanzia e d’adolescenza, fermandosi sulle soglie della maturità e dunque all’età delle responsabilità personali e pubbliche; ma questa, come si suole dire, è un’altra storia, che forse in seguito verrà raccontata.

martedì 9 agosto 2016

Barry Michael, " Massud il leone del Panshir. Dall'islamismo alla libertà" (ed. Ponte alle grazie)

di Domenico Bonvegna


Perfino i più ostinati pacifisti sono convinti che dopo i tanti attacchi, ormai siamo in guerra contro il terrorismo jihadista islamico. Che sia una guerra di religione o per motivi economici, è pur sempre una guerra. Senza voler demonizzare tutti i musulmani, è chiaro anche che il problema riguarda soprattutto l'Islam. Anche se poi si sostiene che chi commette certe atrocità tradisce il vero islam. Comunque sia la maggior parte dei conflitti nel mondo ha a che fare con regimi o gruppi islamici, è soltanto una sfortunata coincidenza? Ovviamente e per fortuna, non si può affermare che tutti i musulmani sono fondamentalisti e terroristi. Una cosa è certa, negando la realtà non si riesce ad affrontare la questione in maniera efficace.
La nostra cultura debolista non riesce a individuare il nemico.
E qui subentra la questione delle questioni:“Il problema principale di quel che resta della cristianità aggredita dal relativismo - scrive Marco Respinti - è l’incapacità di guardare diritto in faccia il proprio nemico per quello che è, di chiamarlo per nome”.
La nostra cultura debole e debolista, che non sa più cosa sia la schiena diritta e che soprattutto non ha più memoria dei padri, dei santi e dei martiri che ci hanno preceduto indicandoci la via, si trincera, si schermisce, si nasconde dietro un dito.  Utilizziamo certe parole come “islamismo” o “jihadismo”, pensando che nel frattempo con i nostri distinguo,“i tagliagole ci faranno lo sconto; ma loro no, tra islam e islamismo non fanno differenza, anzi il secondo nemmeno sanno cosa sia perché tutto ciò che conoscono e professano è solamente il primo”. (M. Respinti, Conoscere l'Islam, così com'è e senza sconti”, 3.8.2016, LaNuovaBQ.it)
A questo proposito lo studioso milanese, saluta con gratitudine, l’iniziativa del Centro Studi Federico Peirone di Torino che, in collaborazione con le Paoline di Milano, che hanno lanciato una collana editoriale sull'Islam, proprio per conoscerlo meglio. Si tratta di una serie di volumetti monografici sintetici scritti da esperti che hanno lo scopo di informare“sugli aspetti decisivi della cultura musulmana senza cedere alle sin troppo facili sirene del pressapochismo urlato, ma nemmeno a quelle rarefazioni dell’analisi che per volere spiegare tutto finiscono per non spiegare proprio nulla”.
I primi due titoli della collana sono abbastanza puntuali e decisivi. Il primo, Corano. Identità e storia, lo firma don Augusto Negri, docente di Storia dell’islam nell’Università Pontificia Salesiana di Roma, nonché cofondatore e direttore del Centro Peirone. Il secondo, Jihad. Significato e attualità, lo si deve alla penna di Silvia Scaranari, doppia laurea in Lettere moderne a Torino e in Filosofia a Parma, l’altra cofondatrice del Centro Peirone.
Per quanto riguarda l'Islam e quindi la questione del Jihad, Respinti, puntualizza:“Il punto nodale, infatti, non è criminalizzare tutto l’islam ma nemmeno deresponsabilizzarlo completamente, immaginando che tutto quanto in esso è morte e violenza sia solo una “devianza” (magari opera, come ora va di moda dire, di “depressi” e “schizoidi”). Va cioè chiarito bene che se la lotta armata non esaurisce da sola il concetto di jihad, la “guerra santa” non ne è nemmeno una estremizzazione spuria, eretica e liminale (per quanto magari numericamente rilevante). Infatti per la prof. Scaranari,“Se, infatti, il martirio-suicidio è ignoto all’islam fino al secolo XX, ciò non significa che chi lo pratica oggi con risultati devastati e destabilizzanti pure per lo stesso mondo musulmano sia solo un “compagno che sbaglia”, o addirittura un eterodosso. Insomma, se non cominceremo a renderci conto sul serio di ciò che la realtà musulmana è, continueremo a vivere in un film surreale, e in quel film magari anche a morirci”.(Ibidem)
Intervista allo storico militarista Alberto Leoni.
Alberto Leoni, storico militarista, autore di significative opere di storia sulle guerre e le conquiste islamiche intervistato da LaNuova BussolaQuotidina.it, ha rilasciato delle importanti dichiarazioni. Intanto rileva molta confusione, anche tra i capi di governo in Europa, non hanno chiaro il fenomeno terrorista che stanno affrontando. Bisognerebbe chiedere a loro a quale modello di guerra sono fermi:“alla Seconda Guerra Mondiale”, se è così,“sono completamente fuori strada”. Se invece “intendono una guerra asimmetrica, dove tutte le risorse di una nazione sono coinvolte, allora hanno ragione”. E per risorse, lo storico, intende:“risorse culturali, economiche e anche militari. Queste ultime sono in gioco, in proporzione rilevante ma minoritaria. Abbiamo illustri precedenti di guerre asimmetriche, non è un fenomeno del tutto nuovo”. Leoni fa riferimento niente meno che alla Guerra Fredda (1945-1991), guerreggiata in tutto il mondo, rimasta “congelata” solo in Europa. Una guerra abbastanza calda, visto il gran numero di morti.“Gli Usa hanno subito 100mila fra morti e dispersi su fronti extra-europei, loro la guerra l’hanno combattuta veramente. Noi no: in Europa, Nato e Patto di Varsavia si sono fronteggiati lungo la cortina di ferro, per decenni”.
Peraltro in quegli anni, i comunisti stavano vincendo la battaglia ideologica, il filosofo e politologo, James Burnham, per spiegare questa vittoria, ribalta il motto di von Clausewitz: “la politica è la continuazione della guerra con altri mezzi”. Sostanzialmente si possono raggiungere obiettivi militari attraverso metodi non violenti, come hanno fatto i dissidenti nell'Est, Solidarnocs e lo stesso Papa Giovanni Paolo II.
Leoni sottolinea l'impegno delle forze dell'ordine italiane, dell'intelligence che funzionano, anche grazie all'esperienza della lotta al terrorismo rosso, hanno imparato a dialogare tra loro. Inoltre si è evitato di creare ghetti, quartieri interamente islamici, come le banlieau in Francia, o in Belgio come Molembeek a Bruxelles.
Per lo storico questa è una guerra che si vince anche nei rapporti spiccioli, quotidiani, come un insegnante che dà lezioni di italiano ai ragazzini musulmani, soprattutto si cerca di educare l'universo femminile, da dove si spera che parta una riforma del mondo islamico.
Il terrorismo jihadista islamista colpisce principalmente i musulmani.
Chiaramente per Leoni la distruzione dello Stato Islamico (il Califfato) è fondamentale per vincere la guerra contro il terrorismo jihadista, anche se poi la questione non è risolta. L'intervista si conclude con delle osservazioni interessanti. Lo storico è convinto che non sia vero che “l’islam è una religione di pace e non ha nulla a che fare col terrorismo”. Chi vuole, può trovare, all’interno della tradizione e della letteratura dell’islam, gli elementi necessari a giustificare la guerra. Ma è anche vero che (e questa è una cosa che non trovo veramente da nessuna parte), l’80% degli attentati avvengono in Iraq e in Pakistan, dove i morti sono quasi esclusivamente musulmani. Specie in Pakistan, i terroristi sunniti uccidono altri sunniti, non c’è nemmeno la giustificazione dello scontro settario fra sunniti e sciiti”.
A questo punto è interessante la domanda che si pone Leoni:Chi sta realmente combattendo contro il terrorismo? Altri musulmani. Stanno combattendo la nostra battaglia, come i dissidenti e i cristiani dell’Est europeo durante la Guerra Fredda. E questa è una cosa di cui dobbiamo essere consapevoli e convinti. I numeri parlano chiaro, la realtà è testarda: l’islam è una religione guerriera, ma ha al suo interno gli anticorpi necessari a resistere al veleno terrorista. L’Isis è quella follia che distrugge i luoghi più belli e più sacri dell’islam, come i santuari sufi e sciiti, tesori dell’umanità. E poi c’è chi prova a resistere. C’è l’attentatore suicida che si fa esplodere per uccidere indiscriminatamente, ma ricordo anche che, nel gennaio del 2005, durante le prime elezioni in Iraq, in cinque punti diversi di Baghdad, poliziotti iracheni si lanciarono contro gli uomini-bomba e preferirono morire loro stessi per sventare la strage”. Secondo Leoni, “Un esempio luminoso è quello del comandante Massoud, che resistette ai Talebani e fu da essi ucciso alla vigilia dell’11 settembre 2001. In una preghiera recitava: “Ringrazio l’Onnipotente che ci ha dato la Sua forza e la Sua gentilezza, per resistere a questa gente lontana da Dio”. E parlava dei Talebani. La sua lezione non è mai stata fatta nostra.(“Possiamo vincere la guerra con i jihadisti”, di Stefano Magni, 2.8.16, LaNuovaBQ.it)
L'importanza strategica di studiare Massud, il “Leone del Panshir”.
Qualche anno fa ho fatto una ricerca su Ahmad Shah Massud, il leggendario “Leone del Panshir”, il “principe filosofo”, che ha combattuto tra le montagne dell'Afghanistan prima contro l'invasione sovietica dell'Armata Rossa e poi contro la dittatura islamista dei Talebani. Ho utilizzato uno splendido saggio, di uno scrittore americano, Michael Barry, “Massud dall'islamismo alla libertà”, pubblicato da Ponte delle Grazie(2003)
Nel mio piccolo avevo capito dell'importanza strategica di studiare questa splendida figura del “comandante-signore”, l’amer-sahib. Infatti, il Massud politico appartiene a una specie molto rara, Barry addirittura lo accosta all’agire gesuitico, del contemplativo in azione. Un insegnamento scrive Barry, che“dista anni luce dagli incubi di un Bin Laden” e dei suoi successori.
 Massoud era diverso dagli altri anche in guerra, il «leone del Panshir» viene definito, per la gentilezza dei modi e per un“profondo sentimento di pietà e clemenza , ha sempre riservato un trattamento umano ai suoi prigionieri e non è poco nel clima di lotta senza quartiere che i mujaheddin affrontavano ogni giorni contro avversari spietati come i russi e poi i talebani.
Rispondendo alla giornalista Colombani, qualche settimana prima di essere ucciso, diceva:Noi cerchiamo di togliere alle donne le catene, mentre i talebani non fanno altro che renderle più pesanti. Così le donne hanno due nemici: la guerra e la nostra cultura(…) e dando loro la possibilità di istruirsi che potranno ottenere le armi per liberarsi”. E in un’altra intervista, sostiene che per lui,“la donna e l’uomo, da un punto di vista umano, hanno entrambi lo stesso valore. Le donne potranno studiare, ottenere lo spazio che meritano in ogni tipo di lavoro, esprimere il loro voto nelle elezioni che si terranno in futuro ed essere a loro volta candidate”.
E qui si può notare perchè il comandante afghano era una figura ingombrante e fastidiosa e tanto odiata da bin Laden e dagli islamisti, per questo lo hanno ucciso il 9 settembre 2011. Studiare Massoud è importante,La sua eroica contestazione dell’islamismo proviene dall’interno dell’Islam, si richiama all’Islam più tradizionale e profondo, un Islam sufi, radicato in una terra, aureolato di gloria nella lotta, e a partire da ciò arriva a preconizzare la difesa di libere elezioni e dei diritti umani universali”.Tra l’altro, secondo Barry,“nessuna personalità a tutti gli effetti musulmana che abbia lottato contro l’islamismo, in questo XX secolo ormai concluso, può dire di aver raggiunto la levatura eroica di Massud”.

Il 7 aprile 2001quando Massud approdò a Strasburgo per chiedere aiuto all’Europa, al giornalista del Corriere della Sera, Ettore Mo, confidò con amarezza: I governi europei non capiscono che io non combatto solo per il mio Panshir, ma per bloccare l'espansione dell'integralismo islamico scatenato a Teheran da Khomeini... Ve ne accorgerete”. Ce ne siamo accorti tardivamente qualche mese dopo, l’11 settembre  con l’atto di guerra dell’abbattimento delle “twin towers”.

giovedì 4 agosto 2016

Giorgio Barberi Squarotti, "Le finte Allegorie" (ed. Eva)

È appena uscito dalla tipografia il nuovo libro del grande Giorgio Bàrberi Squarotti “Le finte allegorie” (Ed. Eva, Collana “L’Albatro”, Venafro 2016, pp. 120, € 15,00. ISBN 978-88-97930-83-9).
Già il titolo di questo libro  – scrive tra l’altro Giuseppe Napolitano in prefazione – sembra voglia mettere sull’avviso il lettore, magari quello meno smaliziato, il quale comprenda quanto ci sarà di gioco nel viaggio che sta per intraprendere: ci sono allegorie, ma sono finte, quindi è tutto reale? È così che deve intendersi, chissà. Ma dalle prime pagine si afferra il bandolo della matassa e sarà poi abbastanza facile scioglierla. Oddio, senza aspettarsi più di quello che c’è e si vede subito: la gioia di una tavola imbandita e ricca di ogni leccornia (e absit iniuria verbis, in questo caso è proprio il caso di sottolinearlo). Appena “le due cameriere, castana l’una, l’altra bionda, entrambe amabili e giustamente giovani, si siano spogliate nude” nell’oste-ria di Clusone, comincia la giostra e non la smette più di girare, fino alla fine del libro – un ritornello, un refrain, un rondò... insomma una ludica frenesia che trascina verso un finale subito atteso poiché giustamente immaginato (per parafrasare stavolta il gioco linguistico dell’autore). Ma prima di arrivarci converrà visitare stazioni di posta e sontuose abitazioni, siti archeologici e squallide dimore di mercanti... Senza dimenticare (altra subliminale dichiarazione d’intenti) che «questo istante è vero solo mentre tu lo scrivi»...

Giorgio Bàrberi Squarotti è nato a Torino il 14 settembre 1929. Si è laureato in letteratura italiana con Giovanni Getto nell’Università di Torino, dove ha poi insegnato come ordinario di italianistica dal 1967 al 2002 e di cui è ora professore emerito. Ha diretto e organizzato la redazione del Grande Dizionario della Lingua italiana della casa editrice Utet, rivedendolo personalmente lemma per lemma. Ha pubblicato un gran numero di volumi di saggi critici dedicati ad autori della nostra letteratura da Dante ai contemporanei e quasi altrettante raccolte di versi.

mercoledì 3 agosto 2016

Pierfranco Bruni, "Pirandello" (Ed. Nemapress)

di Neria De Giovanni

Pirandello nostro contemporaneo, potremmo dire leggendo questo ultimo libro di Pierfranco Bruni: “Luigi Pirandello. Il tragico e la follia” (Edizioni NEMAPRESS).
Pirandello, la cui lettura ci aiuta a capire le nostre inquietudini, le angosce ma anche le utopìe, le follìe e le speranze.
E questo grazie alla sensibilità e la profondità di studioso che Pierfranco Bruni dimostra ancora una volta.
La critica letteraria italiana spesso ci costringe a leggere libri che sembrano sterili esercizi, giochi intellettuali, soltanto utili per i concorsi universitari di un sapere sempre più particellizzato.
Il Pirandello di Pierfranco Bruni, invece, chiama in causa direttamente la nostra intelligente curiosità quando affonda il suo sguardo critico su accostamenti  a prima vista molto coraggiosi o addirittura arrischiati, Pirandello sciamano, Dante in Pirandello, le radici arabe, Tra Occidente e Oriente, ecc. 
Credo che nessuno finora abbia letto Pirandello e Pavese insieme, “gli scrittori del tutto e dell’impossibile, del tragico e dell’indefinibile disperazione”
Splendide le pagine sul rapporto Pirandello –Marta Abba, lo scrittore e la sua Musa.
Importante e  imperdibile l’analisi del “Mal giocondo” su Pirandello poeta di cui pochi hanno scritto e ancor di meno parlato.
Perché leggere  questo  “Luigi Pirandello, il tragico e la follìa” di Pierfranco Bruni? Perché Bruni è anche uno scrittore di suo, che riesce  a “passare” contenuti e concetti di altri scrittori, in questo caso di Pirandello, spolverandoli di verità personali, rivitalizzandoli con la cultura di chi trova fratelli ed amici vissuti “semplicemente” prima di lui.
Lo stile è paratattico, spesso frammentato in interventi nominali, con ellissi di verbo. Ma per questo le frasi di Pierfranco Bruni si bevono come acqua frizzante nel pieno della calura estiva. E rinfrescano lo spirito, come solo la vera cultura sa fare.

martedì 2 agosto 2016

Giuseppe Pappalardo, "Contraventu" (Ed. Arianna)

di Giovanna Sciacchitano

Il ventinove Giugno scorso, nellelegante cornice liberty di Villa Malfitano-Whitaker, la Dante Alighieri di Palermo in collaborazione con l’Ottagono Letterario ha presentato il nuovo libro di Giuseppe Pappalardo Contraventu, sottotitolo Canzuni, sunetti e strammotti siciliani, Edizioni Arianna. In questa raccolta di poesie dialettali «il nostro autore - scrive Salvatore Di Marco nella prefazione - compie un passo in avanti molto importante e assai significativo per la sua ricerca poetica e si avvia verso una stagione nuova: quella del recupero della sua poesia, dandole voce e strumenti espressivi sempre più personali».
Il libro è suddiviso in tre sezioni: canzoni, sonetti e strambotti. Sono, questi, tre generi della tradizione poetica, non solo siciliana, di cui l’autore parla in una nota alla fine del libro. La sezione delle canzuni è aperta dalla poesia Contraventu da cui prende il titolo l’intera raccolta. Questa poesia è il «manifesto poetico» dell’autore e ne definisce la cifra stilistica. Infatti Pappalardo dichiara, sin dall’inizio, la sua intenzione di non adottare uno stile che lo ingabbi in canoni espressivi definiti a discapito di una tradizione letteraria che egli sente ancora forte dentro di sé. Di conseguenza il suo essere poeta «controcorrente» si realizza, oltre che nella scelta delle tematiche, anche nella volontà di non rinunciare alla metrica classica, pur tenendo presenti le moderne tendenze al verso libero.
Ha aperto la manifestazione Domenica Perrone, docente di Letteratura Italiana Contemporanea all’Università di Palermo e presidente della «Dante Alighieri», la quale ha evidenziato l’attenzione che Pappalardo pone alla forma con cui esprime i suoi contenuti e ha messo in luce la capacità dell’autore di esporre la contemporaneità con un linguaggio, purtroppo superato quale è il dialetto siciliano e che trova comunque  la sua ragion d’essere proprio nell’espressione poetica.
 La Perrone ha inoltre sottolineato la plasticità dei versi di Pappalardo, esempio ne è il  contenuto poetico degli strambotti, attraverso i quali Pappalardo ha raccontato i vizi capitali dell’uomo (la superbia, la tinturìa, la mmìdia, la rràggia, la lussùria, la gula, la lagnusìa e la farsitudini)  usando immagini talmente vive e coinvolgenti da fare intuire a quale vizio l’autore si riferisce anche senza leggerne il titolo.
Relatore della serata è stato Alfio Inserra, affermato poeta palermitano in lingua e in dialetto, che ha apprezzato notevolmente l’uso che il nostro autore fa della techne, cioè dell’arte di saper applicare le conoscenze linguistiche e letterarie apprese nel tempo. Ed è proprio l’uso della techne che conferisce alla poesia di Pappalardo un valore aggiunto, una precisa identità, anche perché, così operando il nostro autore riesce a coniugare la techne con il pathos, partendo dalle proprie angosce per giungere, quasi attraverso un catartico «esame di coscienza», al binomio pace-amore.  Pappalardo fa poesia vera con quella sua lotta contro tutto e contro tutti, volta ad affermare principi che effondono profonda umanità.
Infine Inserra, ha sottolineato la leggerezza, fra il serio e il faceto, con cui l’autore riesce a parlare di temi impegnativi, pregio che aleggia soprattutto negli strambotti.
Per Pappalardo, dunque,  la poesia è uno strumento con cui esprimere i sentimenti più intimi e autentici che accompagnano gli accadimenti della vita, come l’amore nelle sue diverse forme e intensità, la solitudine, la sofferenza di chi ha lasciato la propria terra, la consapevolezza del tempo che passa, e tanto altro. Per questo i suoi versi emozionano il lettore e lo inducono a meditare.

Stanotte

Stanotti
di l’ali spirlucenti di na nùvula
s’affàccia silinziusa
na fidduzza di luna
e la so lustrura
pèrcia
lu lignu di la me finestra
e mi teni vigghianti
a sèntiri luntani
lu vucialìzzìu ncuttu di l’ariddi,
un abbàiu di cani,
lu rrispìru dô ventu,
lu silènziu dô tempu
ca duna corda
a lu rralòggiu di li me pinzeri,
aspittannu.

 Nei versi di Pappalardo spesso si incontrano metafore mirate a concretizzare proprio quell’andare controcorrente dell’autore, pur nel pieno riconoscimento del proprio tempo. È questa la modernità di Giuseppe Pappalardo, una modernità del passato che ci consegna un poeta capace di rinnovarsi nella sua individualità di artista senza rinunciare alla versificazione tradizionale, ma adattandola alle proprie esigenze poetiche. Pappalardo è, pertanto, un autore che, pur usando il dialetto siciliano nonostante non abbia la ricchezza lessicale della lingua italiana, ci offre una dimensione di questo linguaggio colta sia nella forma sia nel contenuto.
Alla domanda che l’autore pone spesso al suo pubblico di lettori, cioè se abbia ancora senso nel Terzo Millennio  scrivere poesie in dialetto siciliano, egli stesso risponde << Oggi fare poesia in dialetto risulta più complicato di fare poesia in lingua (per la povertà lessicale e la mancanza di regole condivise) ma è proprio nell’accettazione di questa sfida che consiste il piacere di scrivere in dialetto. Un linguaggio che offre al poeta dialettofono suoni e parole che fanno riemergere dall’intimo pensieri, sensazioni, emozioni che la lingua italiana non sempre riesce a rendere con la stessa efficacia>>
Durante la presentazione di Contraventu, la cantante folk Patrizia Genova, accompagnata dalla chitarra del maestro Nicola Marchese, ha emozionato e commosso il pubblico con la sua voce e con un repertorio scelto di canzoni siciliane fra cui E iu luntanu, testo scritto dallo stesso Pappalardo. Dello stesso autore le belle immagini di copertina (il dipinto a olio Ventu di Sicilia).

 Presente all’evento il preside Pietro Attinasi in rappresentanza delle << Edizioni Arianna>>                                                                                                                                                                                

lunedì 1 agosto 2016

Pasquale Attard, "Dal Califfato al Regno " (Ed. Thule)

di Sandra Guddo

Una riflessione sul ruolo del poeta è d’obbligo quando ci si imbatte in un autore come Pasquale Attard che restituisce e conferisce alla scrittura poetica il suo valore originario che è, come asserisce Mario Luzi, durante un’intervista del 1989 condotta da Tommaso Romano, insieme denuncia ed annuncio “ in quanto anticipa quello che è già presente nell’amarezza e nella malattia dell’uomo contemporaneo. “
Lo conferma con immediatezza la copertina del libro in questione che ritrae l’ ammaliante immagine di una danzatrice di Singapore a cui si aggiunge il sorprendente titolo della silloge poetica “ Dal Califfato al Regno “.
Ebbene esiste uno stretto legame tra l’una e l’altro, un trait d’union che è altamente simbolico e che traccia il destino dell’uomo come un viaggio diacronico dal califfato al Regno di Dio. Il libro corredato da una convincente e ragionata  introduzione di Tommaso Romano ci rende immediatamente consapevoli del ruolo dei poeti all’interno della nostra società “ che può e deve essere coscienza critica, mai totalmente avulso dal suo tempo anche per combatterne lo spirito, come testimone a volte isolato, ma conseguente al suo ruolo e alla sua specifica vocazione e natura. “ Il poeta Pasquale Attard in questa appassionata silloge dimostra di essere all’altezza del ruolo di poeta anche se egli è, rispetto a molti altri , un poeta “ certamente atipico “.    Ma è proprio la sua atipicità che lo rende unico e degno dei tanti premi e riconoscimenti ottenuti per il messaggio messianico ed escatologico di cui si fa portavoce.
Una silloge complessa perché contempla svariate tematiche da quelle più intimistiche, di evocazione  leopardiana come per la poesia dedicata alla madre di cui sente ancora il canto < per le quiete stanze > ma non conosce quali pensieri affollino la sua mente < a cui resto forestiero > , alle altre dedicate agli amici scomparsi dalle quali emerge la fragilità dell’uomo di fronte agli eventi ineluttabili ma anche la sua forza che deriva dalla incrollabile Fede, messa più volte duramente alla prova ma mai scalfita, nella Parusia, nell’avvento del Regno di Dio sopra la Babele che è diventato il nostro mondo, il califfato che, al suono di un < flauto magico > porta l’uomo < alla sua rovina  ( … )  giù per la china, scivola, scivola, vita sua declina. > ( pag. 33 )
I toni non sempre sono così controllati; accade che la sua foga creativa diventi  veemenza allorché si rende conto che sulla terra < urla il vento della Gran Bufera, nera caligine incombe sulla sfera. >
Senza scomodare Gian Battista Vico pare che alla fine dei corsi e dei ricorsi, siamo arrivati alla civiltà delle barbarie e che l’apocalisse sia  già arrivata : < torbido lezzo / tutto l’aere oscura / treman / le fondamenta / della vita, / bruciano i popoli, / geme la natura. > ( pag.83 )
L’uomo ha smarrito la Fede, animato da ambizioni smisurate, dalla smania di successo, dal denaro < strusciando i potenti ( … ) finché la tua vita non ebbe sentori che di droghe e liquori, e sesso stremato d’amore privato > da “ Marilyn “ pag. 78.
 Il corpo profanato da sostanze stupefacenti, dimenticando che stupefacente è la nostra natura che ha origini divine e che appartiene insieme a tutte le altre creature al cosmo di cui fa parte e di cui è testimonianza; nel califfato, nella Babele di oggi dove tutto ha perduto valore in nome di un falsificato sincretismo, il nostro corpo è stato ridotto a semplice strumento di piacere o peggio viene trattato come merce di scambio per  ottenere soldi  o successo ed è esposto senza pudore sulle copertine patinate di giornaletti scandalistici alla moda. Apparire è più importante che essere !
Talvolta la disperazione, per una vita svuotata di ogni significato può spingere al suicidio per potere finalmente farla finita; ma è un errore madornale: con il suicidio, ammonisce Pasquale Attard ci si consegna ad una nuova vita  “ e sarà vita d’inferno / ospite d’onore in Averno “.  ( Pag. 77).  A questo punto è inevitabile non  rievocare i versi del Divino Poeta che condanna, ad una pena eterna i suicidi, posizionandoli nell’orrida selva nel secondo girone del settimo cerchio; i suicidi, tra cui si nota Pier delle Vigne, sono stati trasformati, secondo la legge del contrappasso,  in alberi sterili dai rami rinsecchiti lacrimanti gocce di sangue, che hanno perduto per l’eternità la possibilità di ricongiungersi al proprio corpo dal quale si sono volutamente e violentemente separati con l’atto del suicidio, convinti di poter così porre fine ai propri patimenti !
Ma anche l’indifferenza e l’ignavia di fronte alle sofferenze degli altri sono altrettanto disumanizzanti e deliranti . “ E a me che m’importa “ biascica a voce bassa l’uomo qualunquista quando sente parlare di drammi umani che coinvolgono persone altre, lontane da loro.
Che importa se sul nostro pianeta muoiono le madri con i loro figli, se interi popoli sono decimati dalle guerre e dalla fame, se ci sono zone della terre sconvolte dai repentini mutamenti climatici. Tutto si può tollerare purché accada lontano dal < mio sasso > ( pag.32 )
Papa Francesco nella sua recente enciclica “ Laudato sii “ ha ammonito l’umanità che sta distruggendo il pianeta, l’unico che abbiamo e di cui siamo gli amministratori non i creatori, dimenticando che non possiamo lasciare ai nostri figli un pianeta invivibile ma che abbiamo il dovere di custodirlo per consegnarlo a chi verrà dopo di noi come il Creato, testimonianza della bontà del suo Creatore. Ma ormai l’umanità sembra avere dimenticato il suo compito perpetrando il suo delitto contro la natura e “ Sconvolti i pilastri / di Fede e Ragione / nel cielo volteggia / una nera infezione . ( pag. 88 )
La poesia dunque è denuncia dolorosa e drammatica sull’attuale condizione umana travolta da una società dove la Fede è stata sostituita da uno svilito umanesimo globalizzato sul quale comunque prevalgono gli egoismi e gli interessi dei poteri forti, delle lobby che manipolano in modo occulto e subdolo ogni nostro comportamento.
A meno che non si resti vigili cercando di non farsi travolgere, in attesa della Parusia di Gesù che verrà alla fine dei tempi per instaurare il celeste Regno e stabilire Verità e Giustizia, come canta nella poesia “ Il Ritorno del Sole” Dallo splendore dell’Eterna luce, il Sole di Giustizia e Verità / viene … ( pag. 89)
Nella poesia di Pasquale Attard, non c’è soltanto la parte critica o “ pars destruens”  limitata alla sterile denuncia  ma Egli indica anche una via di salvezza, la “ pars costruens” che è insieme annuncio e profezia attraverso le liriche  “ Rinascite “ “Desiderio di pace “ “ Balsamo e ristoro” in cui finalmente potrà ascoltare la Parola divina “ Udrò il tuo respiro, /ornato di preghiera, / senza mattina e sera, / nell’Eden ritrovato. “
Con questo messaggio di speranza, con l’avvento del Regno si chiude in modo emblematico la silloge ma sarebbe un torto  non citare anche  la lirica d’amore in prosa “ Metà di me “ , tratta come afferma l’autore, “ da vecchie carte da me recentemente rinvenute nella mia biblioteca, che sono databili fra il 1970 e il 1973. “ in cui racconta con toni elegiaci, l’incontro con la donna che è, come Egli è fermamente convinto, quella  giusta per lui: la sua metà! ma si tratta soltanto di un’illusione che si alterna nella drammatica altalena della vita, alla delusione che si dipinge nel volto di lei che lo respinge.
Un tuffo nel passato, nel tempo dorato dell’infanzia è costituito dalla delicata poesia dedicata alla sua maestra “ C’era una volta” ,  piena di nostalgica malinconia per quel ritmo lento, con poca tecnologia ma “ lunga di soste e di riflessioni “. Il rimpianto per una pedagogia, forse un po’ bacchettona ma molto efficace, che si basava fondamentalmente sulla costruzione di un rapporto affettivo tra la maestra ed il bambino che da lei si sentiva accettato e protetto.
Ma ciò che sorprende ulteriormente è l’approdo di Pasquale Attard, incurante delle mode del momento, ad una struttura poetica classica, foriera di risonanze dei nostri massimi poeti, che ama ordinate strofe, spesso, quartine i cui versi sono  rimati o comunque ricchi di assonanze e consonanze e costituiscono, a mio avviso, un ritorno alla tradizione che resiste vittoriosa alle sfide del tempo.