mercoledì 30 agosto 2017

Maria Patrizia Allotta, "Il Giglio e l'ortica" (Ed. Thule)

di Giuseppe La Russa

Risulta ovvio come in ogni autore, poeta o romanziere, ricorrano stilemi, contenuti e parole che nel corso di una lunga produzione diventano il marchio di fabbrica dello stesso. Alla sua seconda opera in versi, si può già tracciare un piccolo bilancio per Maria Patrizia Allotta, poetessa che ha esordito nel 2013 con la silloge Anima all’alba e che nel 2017 pubblica, sempre con la casa editrice Thule, Il giglio e l’ortica.
Ma come in ogni percorso poetico – che certamente è anche di vita – la penna di Maria Patrizia Allotta appare più matura, più densa, nitida e chiara.
Ma procediamo con ordine, andando a scovare gli elementi di continuità con la raccolta precedente, Anima all’alba: innanzitutto una delle parti della silloge attuale si intitola Zolle dell’anima, come a richiamare immediatamente l’essenza stessa di un percorso. Inoltre è spesso presente in Il giglio e l’ortica l’immagine dell’alba, spesso citata come nella poesia Fiato all’alba, o semplicemente rievocata attraverso semplici ed essenziali pennellate; e pensiamo anche alla raccolta di testi dell’amico Tommaso Romano e da Maria Patrizia Allotta curata e intitolata Nel buio aspettando l’alba, speranza che non muore. Ma tralasciamo per un attimo queste osservazioni per riprenderle in seguito.
Si è detto di essenzialità: da una scorsa breve dei testi della raccolta, ciò che balza agli occhi è proprio la concisione del dire poetico. Sia chiaro che una tale cifra stilistica non si traduce affatto in povertà, ma è proprio il segno di una maturazione e di una crescita che passano attraverso le mutate esperienze di vita e che si proiettano, poi, nel dettato poietico e creativo. Nel corso di quattro anni, immaginiamo, nuove esperienze e nuovi orizzonti si sono affacciati nella sua vita e così, in Maria Patrizia Allotta, il bisogno è divenuta, probabilmente, questa essenzialità. Non è un caso che tra le dediche si trova quella a Fabio e al «suo dire essenziale» e che nel primo testo, il Giglio e l’ortica che dà il titolo alla raccolta, si legga: «E si cercano gigli essenziali».
Tra le marche stilistiche che la poetessa mantiene vive rispetto alla prima sua fatica letteraria vi è un verso breve, teso alla massima carica espressiva, l’abolizione quasi totale della punteggiatura e la disposizione a scalini riconducibile ad un autore come Mario Luzi, la cui lettura è probabilmente tra le più decisive. Ma ciò che appare evidente in questa nuova esperienza poetica è il discorso asciutto, conciso, ma proprio per questo forte, pregnante, denso. La parola è simbolo, è epifania del sacro, momento rivelativo, dipinto; magistrale appare così l’incipit della raccolta con l’avverbio di tempo ‘ancora’: esso dona l’idea di una continuità nel tempo e nello spazio, è un continuum esistenziale e letterario, è un percorso che ha raccolto e che raccoglie nuova vita.
Il titolo offre, inoltre, un forte spaccato dei contenuti presenti nella raccolta: da un lato il giglio, simbolo di lucentezza, delicatezza e bellezza, e dall’altra l’ortica, metafora di asprezza e difficoltà. Una antitesi, nel titolo, che viene calata nei vari testi della raccolta; osserva, a proposito, Tommaso Romano nella postfazione come in questa metafora vi sia «tutto l’universo di una poesia alta e solenne, intima e dolente, forte e umile al contempo». Non si tratta di semplice contraddizione, ma di uno sguardo profondo e serio sull’esistenza, sulla quotidianità fatta di momenti alti e bassi, di bellezza e della presenza del turpe, di immanente e trascendente. Ma nella maturazione di uno spirito, la potenza dello stesso sta nell’accettare «ogni sfida senza viltà», come si legge in Fiato all’alba attraverso una probabile citazione di Montale.
Se è vero che il tempo è logorio, se gli anni scavano solchi e producono nostalgie, la poesia di Maria Patrizia Allotta è sempre viva e alla ricerca di un approdo, di un risveglio, di una resurrezione. Ecco perché, si diceva, la parola è essenziale e diviene via di accesso all’infinito, all’immutabile, percorso preferenziale per il Senso; ecco perché l’alba, per riallacciarci al discorso precedentemente lasciato in sospeso: essa rappresenta l’inizio che quotidianamente si ripete, nella consapevolezza che, come scrive Gonzalo Alvarez Garcia nella prefazione, «tutto si rinnova, tutto cambia, tutto rimane».

Poi di fiato d’alba
apre luce al sole
                                                       finalmente.
Canto dal petto irrompe
resuscita fervore intenso
nuovo entusiasmo
si avverte.

Nei versi proposti, e in cui si nota l’attenta disposizione, l’anima infinita può osservare l’affacciarsi continuo della speranza, la quotidiana gioia di un perpetuo inizio, il perenne rinascere della natura, può diventare natura essa stessa, come nell’emblematico testo Risorgere: «Mi piace esistere/oltre la palude/come ginestra in fiore.// E tra l’effluvio/di antiche radici/risorgere/nella mia stessa valle/tra i soliti soffi vitali/che conducono/a raggi ilari/spazi aprendo/verso nuovi orizzonti/».

Il percorso di cui si diceva prima, prima esistenziale e poi letterario, è giunto a maturazione, ma non possono negarsi nuovi orizzonti, lo sguardo è sempre rivolto al domani, sempre rivolto in avanti. La disposizione stessa dei versi è un continuo rincorrersi tra gli stessi, pronti a generare e ad autogenerarsi, scontrarsi ed incontrarsi; l’anima della poetessa si schiude, all’alba, come fiori novelli, come giglio delicato che osserva le ortiche, che vive la pesantezza e l’asprezza, ma che in un continuo parto sa accogliere un soffio vitale mai assopito, capace di obbedire perennemente alla vita, in grado di «contemplare/la luce fioca/di ogni tramonto/con lo stesso coraggio/aspettando poi/i bagliori/di qualsiasi alba/che desteranno//nella commozione/ancora/la meraviglia dello stupore/per il Cosmo tutto//».

Ara Pacis


Tommaso Romano, "Nel Mio Regno dei Cieli" (Ed. All'Insegna dell'Ippogrifo)

di Giuseppe La Russa

Chi conosce Tommaso Romano sa, ovviamente, della sua intensa attività, del suo profondo impegno come mediatore culturale nella vita di Palermo, capoluogo siciliano in cui egli vive e in cui ha fondato la sua casa–museo e fondazione Thule. Proprio a quest’ultima sede logistica viene da pensare nell’approcciarsi alla lettura del poemetto Nel mio Regno dei Cieli, edito nel 2017 con prefazione di Salvatore Lo Bue. Non si tratta di un accostamento semplicistico, perchè in fin dei conti è necessario un semplice dialogo, un pomeriggio trascorso in compagnia di Romano presso la fondazione, per capire quanto quel luogo rappresenti la personalità stessa dello scrittore, una stanza sita vicina al caotico centro di Palermo eppure così lontana da esso, immersa in una dimensione che profuma di atemporalità, di silenzio, di attesa. Chi scrive questo pezzo si è ritrovato spesso lì, a dialogare con Romano, a sfogliare dei volumi, a contemplare tutto ciò che adorna quel non-luogo e una delle cose più sorprendenti è come ogni oggetto vari spesso collocazione, nell’assunto, dichiarato da Romano stesso, di una continua ricerca della perfezione, ma nella consapevolezza che la perfezione non esiste: una questua perenne ed inesausta, dunque, che dalla vita convulsa di tutti i giorni si traduce anche nella quiete della fondazione. È lì che possiamo immaginare il pensatore, il poeta, il lettore, l’uomo Romano, orientato nel suo silenzio verso quella investigazione, verso quella ricerca di un senso, di un approdo, con lo sguardo verso il mondo esterno, teso all’ascolto del proprio «battito del cuore per poter percepire e raggiungere l’Origine», per usare le sue stesse parole.
Questa premessa, dunque, diviene funzionale per una interpretazione seria del poemetto Nel mio Regno dei Cieli, opera che consta appunto di silenzio, riflessione profonda e che, come Carmelo Fucarino bene analizza, «rappresenta l’urgenza di fermarsi e di cercare di dare un significato al proprio percorso umano, quotidiano e spirituale».
Gli occhi di Romano sul presente sono spietati, mettono a fuoco in maniera prorompente la deriva dei tempi, dove «solo chi sa produrre e frodare è», ha una vera essenza, può essere dentro il mondo; la constatazione forte è come la parola ‘Dio’ abbia assunto un significato relativo, che tutto sia relativo, che i cuori si siano fatti deserto, incapaci di far fiorire in sé la luce della Bellezza, della Verità, della libertà. Anche le parole sono abusate, anzi è la Parola che diventa insensata: questo concetto viene subito posto all’attenzione di chi legge, ad incipit del poemetto: e chi ha letto l’opera di Romano sa quanto per il poeta la parola sia essenza, manifestazione dell’Essere, quanto essa abbia «un valore fondante che non può essere disperso, soprattutto quando si tratta non della parola in quanto tale, ma in quanto esperienza forte di un linguaggio che è Verità».
La verità, inoltre: essa è un passaggio essenziale della ricerca di Tommaso Romano, verità che coincide con una vita autentica, con una riflessione capace di accompagnare lo sviluppo della vita stessa, che coincide con la bellezza, di cui l’arte può e deve farsi portatrice: ma adesso, constata amaramente il poeta, «tutti gli Dei sono giusti/tutti sono nella verità/perché tutto è verità/anzi nessuna verità,/in profondo». Viene meno proprio questa autenticità tanto ricercata, Cristo sembra essere stato sfrattato, chi segue veramente il messaggio evangelico è forse uno dei pochi “appestati”, uno degli ultimi baluardi, osservatore di come tutto stia crollando, «anche ciò che era l’umano».
In questo quadro desertificante, che risente certamente della lettura di Nietzsche, non dobbiamo però pensare ad un approdo nichilista e nullificante: lo sguardo è rivolto verso il nulla che si sta consumando, che si va plasmando agli occhi di chi osserva, ma non viene mai negata la presenza di Dio, della Bellezza, della Verità. Sono questi dei capisaldi che, nel demistificante presente, vengono messi da parte, ma da Romano continuamente rievocati, urlati, acclamati; il bisogno è proprio quello di un ritorno all’essenza, al silenzio operante, ad una vita fatta di verità e ad una verità fatta di vita. Cristo è continuamente cercato, così come ci ricorda un vecchio testo, Tutti parlano di vita, rivolto proprio al figlio dell’Uomo e in cui si possono leggere similari conclusioni: «Ti trovo e ti cerco/vicino e nella lontana attesa/in tanto smarrimento». Ma ciò che rimane è proprio il tacere, è il silenzio, si diceva: ecco perché quella premessa che immagina Romano all’interno delle stanze della fondazione ad osservare il deserto intorno, l’inferno dei viventi: «Che fare/, se non riconoscersi appena/fra liberi viandanti/sfruttati e senza diritti/se non il tacere/».
Che fare? Un’interrogazione rivolta a se stesso e a chi legge e ha la volontà di capire, di orientare il proprio sguardo ai bisogni estremi del proprio spirito, a chi ha capacità di resistere. Resistere è proprio l’ultimo invito, «forti soltanto di ciò che siamo e di ciò che noi sapremo essere ben oltre i vicoli ciechi», nella consapevolezza di uno sguardo che nonostante tutto rimane lucido, attento, che sa essere luce, perché, come Salvatore Lo Bue mette in evidenza, «la Parola non muta, la bellezza è luce è verità […] Ma occorre un riparo, uno spazio in cui la Luce possa essere custodita»: e il riferimento è proprio la casa-studio-sacrario di cui si diceva in apertura.

In quello spazio inviolato Romano fonda la sua prospettiva, descrive il suo silenzio, disegna la sua attesa, trae la luce che lo guida ancora nella ricerca, nella contemplazione, alla scoperta continua ed inesauribile di nuova Bellezza, al perpetuo desiderio del proprio regno.

martedì 29 agosto 2017

Carmelo Fucarino, "Il Genio di Palermo" (Ed. Thule)

di Giuseppe Bagnasco

Bent Parodi di Belsito a cui il volume in titolo è dedicato, si autodefiniva un “tuttologo” a indicare come nelle sue conferenze, anche semplici interventi, spaziava su tutto ciò che era oggetto delle sue oratorie. E ben si addice questo profilo a Carmelo Fucarino che nel suo Il Genio Palermo, vita morte e miracoli di un dio (Thule, Palermo 2017), se ne dimostra, come in un rito, ampio ed erudito officiante. Le sue radici storiche, che hanno trovato fertile humus nel solco delle tradizioni classiche, e di cui si avvalsero i fortunati studenti del Liceo Garibaldi che per ben 17 anni lo ebbero a docente, sono il substrato su cui ha edificato una monumentale storia sul Genio di Palermo come una “preziosa pietra miliare da incastonarsi…fra le carte…della cultura siciliana”, così come afferma in postfazione  il critico-editore Tommaso Romano.
   Il volume diviso in tre parti, impreziosito da 41 figure, la totalità dedicata al Genio, ben si presta ad una recensione dalla duplicità esplicativa, giacchè mentre da un lato risulta “facile” nella sua esposizione “tuttologica” senza tecnicismi di dubbia interpretazione come sui richiami storici, sui riti, sulle epigrafi, dall’altro risulta  “difficile” nella scelta degli aggettivi da apporre a questa mirabile opera storico-letteraria. Fosse stato un quadro, quale fu l’unico dipinto eseguito da Vito D’Anna, potremmo elencare e distinguerne le figure, i contorni, la prospettiva, la mitezza degli sguardi fino allo stupore dei personaggi lì rappresentati. Si tratta invece, nella prima parte del testo, dello studio di un viaggio “contemplativo” tra le trattazioni comparate dei primigeni del Genio nelle varie culture. Trattazioni che  non si fermano a quelle mediterranee ma si spingono attraversando le Indie fino al Giappone pur conservando i diversi riti un comune denominatore come il culto dei morti e non ultimo, proprio di quelle orientali, delle anime che “convivono” insieme ai presenti. La trattazione storico-antropologica, per rimanere nell’ambito della nostra, identifica nel Daimon della cultura greca del tempo, il progenitore del Genius etrusco-romano, anch’esso ritenuto mediatore nei confronti del divino, così come ce lo rimanda Platone nel  Simposio o quale fu in antico per antonomasia la Pizia dell’Oracolo di Delfi. Per Roma comunque  un dio secondario, tutore e protettore della famiglia nonché di tutte le attività, in particolare di quelle “geniali”. Da ricordare che  il Genio nella tradizione romana,  sopravvissuto quasi mille anni, fu soppresso da Teodosio con l’Editto del 392.
   La seconda parte, costituente il corpo centrale del volume, è dedicata ai Geni di Palermo a ciascuno dei quali  è dedicata ampia descrizione con minuziosa e certosina ricostruzione storica anche riguardo i luoghi. Tutte le figure dei Geni  si distinguono sia per le diverse posture, anche se somiglianti per ovvie ragioni, che per i differenti soggetti che lo contornano. Ma per tutti una sola immagine: Un vecchio barbuto coronato di nobiltà ducale con una serpe sul petto. Ed è così che in Palermo con questa icona, l’Autore ce lo descrive specie in quello del Garraffo, di Palazzo Pretorio, di Palazzo Isnello e di Piazza della Rivoluzione, rappresentato sia in sculture che in bassorilievi, finanche in arazzi o semplicemente raffigurato con il solo volto nei fregi di cancellate. Per la Storia quello di Piazza della Rivoluzione, risulta  il più emblematico e amato dal popolo che anche per questo, fatto spostare nel 1852, riconquistata la Sicilia, dal generale Carlo Filangeri che lo relegò in un magazzino del Senato da dove lo trassero otto anni dopo i palermitani “garibaldini dell’ultima ora” per riportarlo nel sito a lui più “congeniale”. Spesso nelle composizioni il complesso scultoreo, completo di sottostante vasca, portava alla base una scritta provocatoria se non sibillina: “ Suos devorat, alienos nutrit”. Lo testimoniano, e ce li riporta l’Autore, gli scritti di Vincenzo Auria, Tommaso Fazello, Gaspare Palermo fino a Vincenzo Di Giovanni o al precisissimo diarista marchese di Villabianca. Questa epigrafe si rifà alla nomea acquisita nel tempo dalla città di Palermo  da sempre generosa con  gli stranieri e parimenti non altrettanto con i suoi figli meno abbienti e questo fino al presente sebbene ora in scala nazionale. 

   Nella terza parte, di minore corposità rispetto le prime due ma conclusiva, il Fucarino affronta con circostanziata indagine, la simbologia del serpente. E questo, secondo il suo metodo, a cominciare dai vari episodi riportati da Virgilio nell’Eneide a finire a quella orfica dove il rettile inghiottendo la sua coda conferisce a siffatta conformazione circolare  il “continuum”  morte-rigenerazione.  Al riguardo e per completezza, a  memoria nostra, ritroviamo infatti ancora il serpente già nel biblico Giardino dell’Eden come portatore della conoscenza, nel bastone trasformato da Mosè, nei due grandi serpenti marini che uccidono l’omerico Laocoonte, mentre lo ritroviamo adorato come un dio (Quetzalcoatl) nella religione azteca e tolteca, secondo i diari del domenicano Bartolomeo de Las Casas che fu al seguito del “Conquistador” Hernan Cortez.  Quello che più conta, e ci riguarda da vicino, è come la simbologia del serpente sia giunta fin dentro la nostra cultura, quale simbolo della medicina che vediamo sia attorcigliato attorno alla verga di Asclepio sia al bastone alato di Mercurio. Il che non è affatto sorprendente perché già nell’antichità si estraevano dal veleno, tolte le tossine, medicinali curativi. Il Genio Palermo non è solo un volume ricco di dati storici, una passerella iconografica sui tanti modi di rappresentarlo, ma si presenta come un insieme di notizie complete ed esaustive sulle biografie degli autori, sulle descrizioni dei complessi architettonici che li custodivano nonchè sui contesti delle vicende storiche in cui nascevano le opere. E non è tutto perché delle varie interpretazioni sulla simbologia del serpente fornite dai vari storiografi, molte sono puntualmente smentite con inoppugnabili argomentazioni dal Nostro, ritenendole fantasiose. A conclusione di queste pur non esaustive note e a parer nostro, Carmelo Fucarino non è stato e non è, solo un interprete e un docente-traghettatore della conoscenza ma un fervente ricercatore-esploratore, quasi un novello Livingstone  alla ricerca delle fonti del mondo della cultura classica. E non solo. Unisce a ciò una infinita voglia di sempre ulteriori indagini nel campo storico e letterario, non ultimo  quello sui Miti dalla cui esperienza, crediamo, abbia tratto l’ispirazione del presente volume. In esso, al pari del Rosario La Duca, pone richiamo sugli antichi quattro rioni della vecchia Palermo e dove, a dar manforte al presente contesto, spicca quello dell’Albergheria che reca dipinta nel suo scudo una serpe verde. In definitiva Il Genio Palermo si presenta come un mirabile assemblaggio di rara erudizione tra storia e mito fatta dal Fucarino sì da offrire un esemplare contributo di ricerca dotta e appassionata su di un tema, mai così profondamente esplorato.  A conferma di questo excursus sul reale valore della presente opera, basta dare uno sguardo alla bibliografia essenziale dove accanto  ai tanti testi del ‘900 ne troviamo otto dell’800 e ben tre del ‘700. Una consultazione immensa senza contare tra gli altri, i numerosissimi riferimenti storici da Tito Livio ad Apollonio Rodio, Plutarco, Diogene Laerzio, Giuseppe Flavio fino ad Orazio, Catullo, Virgilio. Un oneroso e appassionato lavoro, fatto con rigore e perizia dal Fucarino soprattutto nell’esame delle fonti e tale da porlo per giusta fama accanto a suoi concittadini di valore  quali il poeta Vito Mercadante, il sociologo Ennio Pintacuda, lo storico d’arte Luigi Sarullo. E non ultimo per la Storia quel Matteo Bonello, figlio del Guglielmo fondatore della “civitas prizzese”, di nobiltà normanna e signore del Castello di Caccamo, dentro le cui mura ordì la congiura contro il legittimo re Guglielmo I e che principiò proprio con l’uccisione del Primo ministro Majone di Bari, per mezzo di una spada la cui elsa, ancora inchiodata sul portone arcivescovile, è falsamente mostrata ai turisti come autentica, malgrado l’elsa cinquecentesca e il certo riferimento al feudale Ius Gladii ne tradiscono la storia. Dettagli questi, che appaiono superflui e di semplice ornamento rispetto un’opera di tale levatura quale è Il Genio Palermo  che onora l’intera sicilianità degli studiosi dell’arte e della storia e che deve il suo ampliamento ad uno studioso di valore quale certamente è Carmelo Fucarino che ne confina la gloria. 

mercoledì 16 agosto 2017

150 anni di conflitti nord-sud

di Domenico Bonvegna

E’ passato un secolo e mezzo da quando è stata “fondata” l’Italia, ma ancora si discute, si scrive sul perchè non è stata raggiunta quell'unità fortemente voluta dalla Casa Savoia e da una minoranza illuminata di letterati e poeti che da tempo cercava di realizzare quel loro sogno proibito.“Appena l’Italia venne messa insieme con i pezzi raccolti, il Sud si ribellò e ingaggiò una sanguinosa guerra di secessione. Al Nord i favorevoli all’unità erano poche migliaia, al Sud anche meno. Trent’anni dopo l’unità, l’Italia era già scossa da tentazioni separatiste, sia al Nord che al Sud,[…]”. Paradossalmente gli argomenti di discussione di allora sono gli stessi di oggi: la corruzione civile, la criminalità organizzata, le clientele politiche, i differenti costumi, l’assistenzialismo. Sono i temi che affronta Romano Bracalini, giornalista e storico, in un interessantissimo e ben documentato pamphlet, pubblicato da Rubbettino nel 2010, “Brandelli d’Italia. 150 anni di conflitti Nord-Sud.
Il testo tenta di spiegare, senza nascondere nulla e senza interpretazioni arbitrarie le ragioni del Nord e del Sud. Bracalini fa una descrizione impietosa, a volte spietata e irritante delle differenze sostanziali esistenti tra l’Italia settentrionale e quella meridionale. Il libro ruota intorno alla questione della mancata unità politica del Paese. Anche se per la verità, nonostante le divisioni, in Italia, una certa unità esisteva ed era intorno alla fede cristiana. Però Bracalini che a tratti manifesta segni di anticlericalismo, ignora questo aspetto e anche la “guerra” nei confronti della Chiesa ad opera dei risorgimentisti.
Comunque sia per il giornalista, l’Italia era troppo diversa per essere unita in quel modo. A cominciare dalla lingua,“anziché un ausilio comune, era una barriera. Solo una minoranza esigua sapeva parlare l’italiano. L’analfabetismo, specie nel Mezzogiorno, aveva percentuali africane”. Bracalini nel libro si avvale del parere di innumerevoli storici e studiosi, tra i tanti, Giustino Fortunato, Gaetano Salvemini, Rosario Villari, Francesco Saverio Nitti, che hanno affrontato in particolare la questione meridionale, diventata cruciale, e talvolta, magari affrontata,  appassionatamente e troppo di parte.
Giovanni Sartori, qualche anno fa scriveva:“L’Italia è sempre stata divisa tra un Nord ricco e più pulito e un Sud clientelare e povero”. Mentre per l'economista Luca Ricolfi, “è la frattura tra Nord e Sud a minare il sentimento nazionale”. Peraltro il 40% degli italiani ritiene che,“l’Italia non sarà mai una nazione unita perché ci sono troppe diversità economiche e culturali”. Sembra che al Centro-Nord sia più forte il senso di appartenenza territoriale. Praticamente dal libro di Bracalini emergono“due Italie contrapposte e uno stato, specie al Sud, quasi inesistente in cui predominano le camorre e le clientele sostituite alla sovranità della legge. Un paese per metà europeo e per metà levantino, dove non funziona nulla (treni, poste, burocrazia)”. Tempo fa il settimanale britannico,“The Economist”, ridisegnando la cartina dell’Europa, mette l’Italia settentrionale in una fantomatica Confederazione del Nord, insieme ad altri Paesi come la Francia, Germania, Austria. Mentre l’Italia meridionale, farebbe parte della Grecia con una moneta più debole. Una divisione che assomiglia al modello Belgio. Secondo Bracalini prima o poi potrebbe accadere, anche perché l’Europa potrebbe essere divisa diversamente, non più sui vecchi modelli degli Stati-nazione, ma secondo aree economiche omogenee.
Il testo di Bracalini parte dal 1861 quando i briganti in nome di Dio e del Re iniziano a ribellarsi ai nuovi invasori venuti dal Nord. E qui si infrange subito il mito dell’unità,“i cultori del mito unitario, non potevano ammettere, se non come reazionaria, l’idea che il Sud ricusasse l’occupazione militare solo perché essa non rientrava nei desideri dei nuovi sudditi, i quali, trattati da popolo conquistato, avrebbero dovuto accettarne passivamente tutte le clausole”. Pertanto i risorgimentisti, infamarono “la ribellione, togliendole ogni carattere di legittimità; nessun principio di decoro venne riconosciuto ai ‘briganti’, termine col quale vennero designati malfattori e gente rispettabile; nelle rappresaglie non si fece distinzione tra plebe e signori, borghesi e preti”.
Il brigantaggio per i novelli liberatori,“appariva come l’ultimo sussulto del passato che andava stroncato senza pietà, un movimento funesto e feroce nemico dell’unità, della libertà e della vita civile”. Il nuovo Regno è stato costretto a mettere in campo un esercito poderoso come se dovesse combattere una guerra tra Stati. Le efferatezze e le brutalità di un esercito di conquista non ebbero più fine. Alla fine fu“una guerra di sterminio così orribile di ferocia che si dovette e si deve ancora nasconderla alla storia”.
Massimo D'Azeglio ha avuto il coraggio di dire la verità: per tenere il Regno ci vogliono 60 battaglioni. In pratica la popolazione meridonale rifiuta l'”Italia”. Così contro l'ipocrisia degli unitari, che preferivano parlare di generica “guerra al brigantaggio”, D'Azeglio, con la consuetudine franchezza, parlava di “insurrezione antiunitaria”. Tuttavia per Bracalini era chiaro che “il popolo meridionale aveva tutto il diritto di scegliere la forma politica che più desiderava, e non per questo essere tacciato di reazionario, solo perchè non desiderava sottostare a un governo che veniva con la pretesa di 'liberarlo' senza che nessuno glielo avesse chiesto”.
Praticamente anche qui al sud si è palesato, quello che è successo per altre guerre: “gli eserciti di invasione pretendono sempre che i popoli conquistati riconoscono la superiorità delle loro ragioni”. Così la cosiddetta “guerra al brigantaggio”, fu anche “una sporca guerra coloniale”, che per adornarla di buone intenzioni, venne camuffata dietro“la maschera ingannevole e falsa della missione 'civilizzatrice', prima nel Sud e poi in Africa”. Per Bracalini addirittura si può parlare di prima guerra di “secessione” italiana, tra l'altro svoltasi proprio nello stesso periodo della Guerra civile americana. Con la differenza che in America si combatterono due eserciti alla pari, qui al Sud Italia, fu combattuta tra due forze impari. Tra uno Stato baldanzoso militarista e un popolo povero e debole.
Nel 2° capitolo Bracalini sviluppa la tesi delle due Italie, una sempre avanti e l'altra indietro. Anche per quanto riguarda la storia del passato remoto,“non c'era in Europa un altro Paese in cui, in uno spazio tanto esiguo, il Noed e il Sud esprimessoro sistemi di governo così radiclamente opposti”. Bracalini tra storia e attualità vede troppi elementi comuni, del resto il libro ha il pregio di collegare il nostro passato al presente. Giustino Fortunato diceva che non solo i Borboni erano responsabili del degrado del reame. Una parte non trascurabile di colpa era anche dei napoletani, 'ai quali non si possono negare – riconosceva lo stesso Francesco Saverio Nitti – qualità antisociali notevoli: poco spirito di unione e di solidarietà”, ma anche “mancanza di educazione industriale e di spirito di lavoro[...]”.Qualcuno dava la colpa al governo degli spagnoli, ma anche Milano era stata dominata dagli spagnoli per quasi due secoli. Anche se poi passarono gli austriaci, gli asburgo. Bracalini mi sembra troppo severo nel giudicare il passato borbonico. Non è per niente indulgente nel giudizio sui sovrani napoletani. Sicuramente è lontano da certe leggende auree, create dal nostalgismo borbonico. Secondo lui c'erano antiche miserie, che dopo furono accentuate dai vari politici e ministri meridionali, come Francesco Crispi e Di Rudinì, che peraltro furono i peggiori nemici del Mezzogiorno. Secondo Luca Meldolesi, “la questione meridionale”, è frutto di tre flagelli: “criminalità, clientelismo, corporativismo”.
Ma nello stesso tempo descrive in maniera rigorosa anche la sciagurata politica piemontese, dello Stato militarista sabaudo, che aveva un debito pubblico enorme a causa delle numerose guerre intraprese. Il nuovo governo “riuscì solo ad assicurare più tasse per tutti”. Subito dopo l'unità, il Piemonte era lo Stato più indebitato e avrebbe dovuto pagare di più rispetto agli altri, “invece per una stranezza contabile, veniva a pagare, in proporzione, meno del regno delle due Sicilie, che era indebitato solo per la metà”. Sostanzialmente, furono dunque i cittadini delle province meridionali ad accollarsi il peso maggiore del debito piemontese. Oltre al danno anche la beffa per il Mezzogiorno.“Dopo aver subito l'occupazione 'piemontese' e le distruzioni che ne erano derivate, parve di dover pagare la propria parte per l'onore di essere stati presi a fucilate”. Non solo ma secondo Lorenzo Del Boca, cinquant'anni dopo, sono proprio i “terroni”, cioè i meridionali a dover pagar, il maggior tributo di morti per l'inutile strage della prima guerra mondiale.
Comunque sia per Bracalini, nell'impatto dell'unità, ci ha rimesso il Mezzogiorno, perchè era più debole. E se vogliamo per certi aspetti neanche per il Nord è stato conveniente l'annessione del Sud, questo aspetto viene considerato sempre da Del Boca, nel suo “Polentoni” (2011). “Fra gli sconfitti del Risorgimento ci sta a buon diritto il Nord. Il Nord vero, quello dei campi e delle fabbriche, che non soltanto si mantenne ostile a ciò che si andava profilando[...]”. Del resto, lo stesso Sidney Sonnino, ministro del tesoro, delle finanze e degli esteri, sull'unità, ha detto: “se questa è l'Italia era meglio non averla fatta”.
Il libro dà conto della rivolta separatista di Palermo (1866). Sette giorni intensi di grandi battaglie per le vie della città. I motivi dello scontento erano tanti. C'era chi voleva la repubblica indipendente, chi la restaurazione borbonica, chi chiedeva semplicemente pane e chi protestava per le limitazioni imposte alle feste di santa Rosalia, o per la soppressione delle corporazioni religiose. Il sindaco della città, Antonio Di Rudinì, tentò di difendere la città, ma dovette asseraglirsi nel palazzo reale. Mazziniani, autonomisti, borbonici, clericali, mafia, si trovarono a combattere sullo stesso fronte.
Per sedare la rivolta, le truppe del generale Raffaele Cadorna e soprattutto con il bombardamento per tre giorni di Palermo, da parte di otto navi da guerra italiane, si riuscì a conquistare la città. “Non tutti erano criminali e la loro protesta andava compresa”. La repressione fu dura e feroce. Molti furono i morti da entrambi gli schieramenti. Non si approfondirono le cause della sommossa. Bracalini, descrive con una certa meticolosità i caretteri della società siciliana, in particolare delle due città, Palermo e Catania, animate da evidenti contrasti atavici. L'autore evidenzia nel carattere siciliano una “insopprimibile sentimento di ribellione”, una alterigia ereditata dagli spagnoli e una suscettibilità ombrosa ereditata dagli arabi.
Bracalini ricorda che nell'intento di prevenire altre insurrezioni nel mezzogiorno e in Sicilia, in particolare, il governo regio, si fece promotore di un progetto di misure eccezionali di domicilio coatto e deportazione dei “briganti” nelle Americhe o in qualche remoto Paese asiatico. Addirittura si cercò di costruire un “carcere per meridionali” nell'isola di Socotra, nel Mar Rosso.
“Brandelli d'Italia” affronta anche la questione della capitale del nuovo Regno d'Italia. Dalla documentazione proposta da Bracalini si deduce che Roma è “la non capitale”, era la peggiore capitale che si potesse scegliere. In questo capitolo, forse emerge l'anticlericalismo del giornalista. Anche qui Bracalini fa una descrizione spietata, a tratti irriverente, della società romana e soprattutto dei suoi governanti. “Roma si accosta troppo al Sud”. “Roma non aveva nulla delle capitali modello europee, Parigi e Londra, metropoli imperiali di grandi Nazioni moderne”. Per Bracalini, “Roma doveva restare quale l'avevano trasformata i secoli: un grandioso parco di rovine in cui pascolavano le pecore”.
Una città di sudditi, paurosi e cinici, dove era presente un popolino violento e sboccato, avvezzo alla contumelia (“ma li mortaci tua” o “fijo de na mignotta”, erano gli improperi più in voga). Era la peggiore capitale che si potesse scegliere.
Se l'unità fu un errore, Roma ne costituiva la riprova.
Il capitolo va a concludersi con una serie di citazioni di esimi personaggi che certamente non danno descrizioni positive della città eterna.
Intanto noi ci fermiamo qui. Alla prossima.



sabato 12 agosto 2017

Il padrone del mondo. Profetico: ma Benson non aveva previsto un’ipotesi che è qui, proprio ora.

di Marco Tosatti



Cari stilumcuriali, ho passato questi pochi giorni di riposo lontano dal computer e in compagnia di un libro che non avevo ancora letto, e che certamente molti di voi già conoscono, “Il padrone del mondo” di Robert Hugh Benson. Un’opera che secondo alcuni è servita – anche – di ispirazione a George Orwell per “1984”. Chi non lo avesse ancora letto, accolga il mio umile consiglio e lo legga. È stato scritto nel 1907, ed è un romanzo “distopico”, cioè che descrive una società immaginaria dai contorni opposti a quelli dell’utopia: cioè brutti.
L’ha scritto un sacerdote anglicano, figlio dell’arcivescovo di Westminster, e successivamente entrato nella Chiesa cattolica.
Era il 1907, e dunque Robert Hugh non aveva fatto in tempo a vedere (morirà nel 1914) la più spaventosa (fino ad allora) carneficina organizzata mai accaduta sulla faccia della terra, la Rivoluzione di Ottobre, il comunismo, il nazismo e la soffice dittatura del politically correct che ha preso silenziosamente il posto, o si è affiancata dolcemente a quegli abomini. Ma come vedrete, o avete già visto, l’ha profetizzata, fino alle case per l’eutanasia. Eppure Benson viveva nel cuore dell’Inghilterra vittoriana, e scriveva in un momento storico in cui il positivismo, la scienza e i progressi tecnici (che usa abilmente nel libro, sia in maniera positiva che negativa, distruzione aerea compresa…) sembravano garantire all’umanità grazie anche alla perdita di terreno delle “superstizioni” (leggi religioni) un futuro radioso e finalmente libero da ceppi secolari. Tutti elementi che rendono ancora più interessante la sua acuta visione profetica.
Leggendolo, per quello che riguarda la persecuzione della Chiesa, se decide di restare fedele a quanto insegnato e trasmesso, il che per il momento non sempre sembra sia il caso, anzi, mi è venuta in mente una frase del cardinale statunitense Francis George: “Mi aspetto di morire nel mio letto, il mio successore morirà in prigione a il suo successore morirà da martire nella pubblica piazza. Il suo successore raccoglierà i frammenti di una società distrutta e lentamente aiuterà a ricostruire la civiltà, come la Chiesa ha fatto così spesso nella storia umana”.
Sia George che soprattutto Benson, persone di fede integerrima, calcolavano la possibilità dell’apostasia per convenienza o per paura; ma non quella dell’apostasia interna, dell’astuzia dei chierici che affermano: non cambia nulla, e spargono semi di confusione. E soprattutto non tenevano in conto la possibilità di una Chiesa che invece di combattere a viso aperto lo Spirito del Mondo vi si assoggettasse. Barattando il martirio con gli applausi e gli elogi…

da: www.marcotosatti.com

giovedì 10 agosto 2017

La via del Sol Levante. Il viaggio giapponese di Mario Vattani

di Riccardo Rosati 

Nel leggere I libri degli altri, ricordando il titolo di una raccolta – uscita postuma nel 1991 – di scritti sul lavoro editoriale di Italo Calvino all'Einaudi, capita talvolta di imbattersi in opere che giungono tra le mani come se seguissero uno strano “progetto”. Subito dopo aver recensito l'intenso e coinvolgente L'impero bonsai (Rizzoli, 2007) di Indro Montanelli, che racchiude dei suoi articoli apparsi per la prima volta sul Corriere della Sera tra il novembre 1951 e il marzo 1952, periodo in cui il grande giornalista soggiornò in Giappone, ecco che sul tavolo del nostro studio ha trovato posizione La via del Sol Levante di Mario Vattani. Quindi, da una narrazione di stampo prettamente giornalistico sul Giappone del Dopoguerra, a quella di un diplomatico italiano appassionato dell’Oriente, il quale riesce a realizzare il suo sogno di trasferirsi nel Paese del Sol Levante, per intraprendere un lungo viaggio in motocicletta al suo interno. Due “Giapponi Diversi”, eppure sempre, in entrambi questi libri, si incontrano quegli elementi esclusivamente nipponici che fanno di questa complessa e, talora, contraddittoria Nazione un luogo unico sulla Terra.
Il viaggio di Vattani comincia nella primavera del 2004, e ciò avviene in modo abbastanza suggestivo e originale. Sarebbe a dire, che l'autore non si dilunga affatto in ermetiche introspezioni per spiegare il perché di questa sua avventura. Sale sulla sua moto e parte, e noi con lui, portandosi dietro una buona conoscenza del Giappone e, specialmente, tante speranze, insieme a qualche timore che alcuni miti giovanili legati alla storia e cultura dell'Arcipelago possano tradire le sue aspettative quando avrà modo di confrontarcisi di persona. Tra una sosta e l’altra di questo percorso solitario nei luoghi meno conosciuti del Sol Levante, la narrazione si intreccia saldamente con la storia dei rapporti tra Italia e Giappone, argomento che, come avremo modo di vedere, funge da fil rouge nel libro, alla riscoperta di un legame, quello tra questi due Paesi, che oggi la stragrande maggioranza degli italiani ignora nella sua interezza e che, per converso, sta a dimostrare quanto il Belpaese fu neanche troppi anni or sono una Nazione tutt'altro che provinciale, come molti benpensanti del progresso della Era Repubblicana non si limitano esclusivamente a credere, ma purtroppo propagandano in media e libri da decenni, svilendo in tal guisa i vari Primati Italiani; nel nostro caso, quello nell'orientalistica. Fosse anche soltanto per questo, La via del Sol Levante si rivela una lettura preziosa per chiunque volesse accorgersi che, parlando del Giappone, è possibile pure scoprire molto sulla nostra stessa storia. Un tentativo, quello di Vattani, di scagliarsi contro l'ipocrisia del dimenticare, caldeggiando una visione che taluni faziosamente giudicano reazionaria, e che è invece essenzialmente risanatrice di fondamentali verità storiche. 
Stilisticamente, questo testo lo si potrebbe definire una sorta di “diario contemporaneo”, connotato da un linguaggio semplice, con frasi essenziali, ma dal forte impatto emotivo. Una forma letteraria in cui il narratore è il libro, ancor più che la storia che racconta. Ciò non può che rimandare al lascito di Jack Kerouac (1922 – 1969), col suo celeberrimo Sulla strada (“On the Road”): romanzo autobiografico, scritto nel 1951 e pubblicato nel 1957. Non sappiamo se e quanto Vattani abbia tratto ispirazione dallo scrittore statunitense; ciononostante, il suo libro risente di quei “ritmi” che hanno reso popolare l'opera di Kerouac. Parliamo ora del luogo ove si svolge la storia raccontata da Vattani, quel Sol Levante al quale si fa riferimento sin dal titolo. Possiamo dire che in questo libro sono presenti diverse, utili informazioni, rese in un modo che tutti possono comprenderle, scandite in un viaggio in quello che lo stesso Vattani chiama: “Giappone profondo”. Egli non fa mai mistero delle sue intenzioni, a partire dal fatto che questo suo lavoro sia dedicato a Yukio Mishima: “[...] tutto sommato è attraverso Yukio Mishima, le sue opere e la sua storia personale che si è aperta per me, allora ancora adolescente, la via del Giappone” (13-14). 
Il pellegrinaggio spirituale e tradizionale di Vattani “parte da Meiji”, per la precisione da Aizu-Wakamatsu (13), località leggendaria del massacro del Byakkotai (白虎隊, “Corpo della Tigre Bianca), episodio cardine della Guerra Boshin (戊辰戦争, “Boshin Sensō”, “Guerra dell'Anno del Drago”), combattuta tra il 1868 e il 1869, che lacerò il Paese tra i sostenitori dello Shogunato Tokugawa e i fautori della Restaurazione Meiji, la quale avrebbe cambiato per sempre il Giappone in una Nazione moderna, con risultati contrastanti per la conservazione dello spirito originario del Popolo Nipponico. Da Aizu comincia, per non fermarsi più, il percorso antimoderno di Vattani nel suo romanzo. Questo avviene quasi come un satori dello Zen, che vede i prodromi nell'incontro con un vecchio ubriaco che gli grida ripetutamente “Itaria” (Italia) (21), per assumere poi forma completa nella scoperta di una colonna romana proveniente da Pompei, dono inviato nel 1928 da Benito Mussolini in persona, il quale rimase colpito nell'udire la vicenda di questi giovani samurai, immolatisi per la difesa della Tradizione. L'incontro di Vattani con la colonna romana, sulla quale è posizionata un'aquila morente, è pieno di stupore, rimanendone quasi stordito. Forse la cosa che più apprezziamo di questo suo scritto è quella sete di sapere, di riannodare il magnifico legame che ci lega al Giappone, per l'appunto a quello “profondo”, per dirla con l'autore, e non più quello pulviscolare e frammentato contemporaneo che tanto ammaliò Roland Barthes prima e il nostro Italo Calvino poi. Vattani ricerca una cultura che è stata per millenni un corpo unico, compatta e coerente, quindi “geneticamente” antimoderna, come spiegò magistralmente Julius Evola nei suoi articoli dedicati all'Arcipelago. 
Con umiltà, Vattani scopre pagina dopo pagina tante cose sull'Italia, sul suo essere il Paese che alla fine per i nipponici – almeno per quelli migliori – ha sempre contato un po' più degli altri, riportando queste sue esperienze senza i toni tronfi dello specialista: “Le racconto anche, senza confessare che io stesso l'abbia appreso solo ora, di quanto lo studio del kyudo abbia in Italia una storia ben più lunga che in molti altri paesi occidentali [...]” (59). Il libro di Vattani è perciò una graduale e inesorabile riscoperta di uno dei principali Primati Italiani, quello che riguarda la nostra, potremmo persino dire ancestrale, conoscenza dell'Asia. In questo caso è il Giappone, col quale il nostro Governo di fine '800 intendeva instaurare dei rapporti paritari. Intento nobilissimo, quello italiano, osteggiato dalle altre potenze europee (70-71). Passano gli anni, e questo Occidente si rivela immancabilmente il medesimo per il Belpaese: alleati sbagliati e con le Nazioni “bianche” che mai seguono la rotta che noi tracciamo. Come adesso avremmo di certo un Medio Oriente assai più pacificato se si fosse sposata la linea indicata da Enrico Mattei, lo stesso dicasi per l'Impero del Sol Levante, al quale, dal 1854 in poi, Americani ed Europei imposero gli infami Trattati Ineguali, generando quel risentimento che alimentò l'ostilità nipponica in campo internazionale. Come non riflettere allora su quella presenza di Roma in Giappone di cui parla l'autore: “Infatti per un momento non credo ai miei occhi, perché avvicinandomi alla base della colonna, vedo campeggiare, incisa nel marmo in grandi lettere romane, la scritta S. P. Q. R.” (31). 
Questo testo propone altresì un interessante ragionamento sulla yamatologia in senso lato (62-64), sulla necessità di rivalutare gli studi di quei tanti orientalisti nostrani, da tempo ormai obliati, e che, per converso, come nel caso del volume Il paese dell'eroica felicità (1941) di Pietro Silvio Rivetta (1886 – 1952), hanno dato un contributo fondamentale nella spiegazione del Giappone tradizionale, dei suoi usi e costumi. Proprio in questa parte del suo libro, abbiamo trovato l'unica posizione che sentiamo di non condividere con Vattani. Ci riferiamo al suo scarso apprezzamento di Fosco Maraini, il quale è stato, e non solamente per noi, il maggiore yamatologo del XX secolo, dedicando al Sol Levante scritti mirabili, tra tutti Ore giapponesi (1957). 
Decisamente corrette sono le osservazioni di Vattani sul concetto di Stato-Impero, tematica che, mutuando le idee dell'orientalista e geopolitologo tedesco Karl Haushofer (1869 – 1946), è la principale chiave di lettura per capire l'essenza del Giappone moderno. Questo elemento valoriale, il diplomatico italiano dimostra di intuirlo chiaramente: “Per la prima volta, mi dico, prendendo ancora un sorso di vino italiano, ho ricevuto un'istruzione da un membro della famiglia imperiale. Ora capisco perché gli ordini imperiali hanno un sapore diverso da quelli repubblicani.” (50).
In conclusione, il viaggio di Mario Vattani è un percorso storico-spirituale che ci ha convinto, essendo stato egli capace di comunicare il fascino inquieto di un Paese in cui: “[…] nulla riposa, nulla è sereno” (34). Inoltre, abbiamo veramente gradito la sua voglia di portare l'Italia con sé, benché non manchi mai di palesare di essere felice di starne lontano: “[...] associare l'Italia alla materia, a Medusa, al toro sacrificale da cui assolutamente allontanarsi per raggiungere una luce diversa, più solida, più reale” (57). La via del Sol Levante è in definitiva un buon libro, poiché scritto sì in modo semplice, nondimeno con un linguaggio gradevole e, cosa ancor più importante, è un testo utile. Ovvero, pieno di informazioni che gli specialisti tendono sistematicamente a non fornire, le quali servono a ristabilire il nostro antico rapporto col Giappone, che è lungo e solido alla stessa stregua della colonna romana che si trova tutt'ora ad Aizu. Vattani mette inconsapevolmente l'identica “giusta distanza” che Goffredo Parise scelse per L'eleganza è frigida (1982), per noi ineguagliato libro di odeporica in terra giapponese. Se nel caso di Parise l'Italia è quella del famigerato Pentapartito – non che oggi la situazione sia migliore, anzi – un luogo che lui sceglie dispregiativamente di chiamare “il Paese della Politica”, quindi una Nazione vile e corrotta, principalmente se confrontata col Giappone; per Vattani la lontananza dall'Italia è ugualmente positiva, poiché gli è servita soprattutto per comprendere che la Via che porta al Sol Levante non parte da Berlino, Londra, Parigi o New York, bensì da Roma! 

Mario Vattani, La via del Sol Levante. Un viaggio giapponese, Roma, Idrovolante edizioni, 2017

martedì 8 agosto 2017

Tommaso Romano, "Nel mio Regno dei cieli" (Ed. All'insegna dell'Ippogrifo)

In nome del padre
Trenodia per i moderni o post-

 di Carmelo Fucarino

Nel corso della vita c’è sempre un momento in cui si sente la necessità e l’urgenza di fermarsi e cercare di dare un significato al proprio percorso umano, quotidiano e spirituale, riassumere i fili del nostro essere uomini dotati di intelletto. È l’esigenza di fare un giro di orizzonte, di guardarsi intorno per rilevare lo stato di essere, dopo tanti labirinti che si sono percorsi, strade intrecciate con bivi erculei che abbiamo dovuto scegliere.
E questo è avvenuto nel percorso culturale e umano di Tommaso Romano. Il giro di orizzonte in un hic et nunc che diviene la conclusione e la sintesi di tante, numerose, misteriose esperienze, volute e cercate, piovute casualmente attraverso imperscrutabili segni del destino, incontri letterari inattesi e imprevisti, conoscenze umane presentatesi senza ordine e preavviso.
Da questo straordinario e immaginifico passaggio di vita la riflessione e l’affabulazione si sono distese ed espresse nella poiesis, un “fare” che è diventato parola sublimata, sintesi allucinata e consolatoria, Verbo che ha cercato di agglutinarsi nell’essenziale della poesia.
Eppure tanta era la piena delle riflessioni, tale la ridondanza dei ricordi e delle certezze acquisite che non è stato sufficiente l’ambito ben “concluso” di una poesia, i pochi versi distillati di pathos e Idea. Un tempo, al suo nascere, dice la leggenda per opera di Jacopo da Lentini, il sonetto fu la poesia per antonomasia, due quartine e due terzine incatenate da rime. Si concesse breve spazio in più al sonetto caudato. Tutto l’altro era soltanto parola cantata nei balli di corte, dalla canzone allo strambotto, dalla pastorella alla laude. La musica e il ballo erano i protagonisti, la parola una traccia rappresentativa di narrazione. Il tutto canonizzato in strutture ben precise di danza e canto.
Poi per secoli si mantennero tali strutture fino al lampo di un verso, quell’abbagliante “Mi illumino di immenso”.
Ora Tommaso non ha trovato nei ritmi canonici uno spazio sufficiente per la sintesi di un attimo di vita. Come l’Ariosto dell’ottava che ebbe bisogno di più ottave per concedersi e concludere le sue fantasie che si gonfiavano a dismisura.
Perciò è tornato ad una forma alessandrina, a quell’epyllion, il piccolo poema epico, si dice invenzione di Callimaco, ma nato con lo pseudo-Esiodo e il suo Scudo, transitato in Sicilia con Teocrito e Mosco e passato a Roma con Catullo 64 ed Eurialo e Niso di Virgilio. Certo che erano altra cosa, ma l’input, la scelta “necessaria” era dettata dal dire, dall’esporre tutto, senza nulla omettere, più che in un semplice epigramma elegiaco.
E inoltre l’uso dell’epico esametro, il verso primo in assoluto dal sanscrito ad Omero e Virgilio. Con il suo ampio respiro, il suo ritmo variegatissimo che riempiva polmoni e mente.
Così Tommaso Romano ha organizzato lo sviluppo epico del suo canto, un dilungarsi nelle volute del pensiero, un accogliere tutti i riverberi e le modulazioni della proteiforme realtà. Perché in questo è consistita questa analisi del presente, la vivisezione di una realtà drammatica e angosciante, nella delusione e nel tradimento della Mente.
Nella diacronia dei messaggi e dei pensieri forti si parte dal filosofo-poeta, il più grande pensatore in assoluto, l’unico di tutti i tempi e luoghi, il mio adorato Platone. Dopo di lui tutto è stato ripetuto, talvolta in un vaniloquio, un affastellarsi di formule e schemi, complice e pianificatore l’Aristotele dell’ipse dixit. E si oscillò per secoli tra Idea e Reale, tra Pensiero e Materia, tra Soggetto e Oggetto. Nell’arida sequenza della prosa scientifica. In questa riflessione sull’esistenza esplode qualche appello diretto, penso a Emanuele Severino e alla «tecnica non ha vinto… ha vinto il denaro». Oppure alle «presunte classi / per la rivoluzione del popolo avvenire», quel comunismo tradito e prostituito ad uso di dittatori folli, vero oppio dei popoli. Oppure quello sprazzo, la fugace lieve toccata a Die fröhliche Wissenschaft (La gaia scienza) di Friedrich Nietzsche, «l’uomo è stato redento / da progresso veloce / da gaia scienza perfetta / che sentenzia», in quella ardua, dolorosa, disperante e disperata negazione di Dio, che «non solo non c’è mai stato / ma neppure ha dato e creato / men che meno nella Rivelazione / di sé». E qui mi fermo in quanto a richiami di fonti.
Tutto è nel titolo del poemetto, “Nel mio Regno dei Cieli”, un regno in cui risolvere tutti gli inganni e i tradimenti, un’ancora soteriologica che aspira a salvare se stessi e il Verbo di Cristo adulterato, mistificato, tradito da tutti, fedeli e cultori ed utilizzatori di seconda mano. E poi quell’incipit, nell’appello al «tempio profanato / dalla parola insensata», verso il limes estremo, il confine ultimo, un ipotetico hortus conclusus, il «flusso di pensiero veritativo / di spirito liberante».
E da qui mi sono ritrovato in un oceano turbinoso di être et néant, un nebbioso fantasma di realtà vituperata ed esecrata, la quotidianità presente e la sua immediata fulminea negazione, senza scampo alcuno. Dalla prima strofa il “lontano restare / e finalmente abiurare”, con la dirompente e dissacrante “dichiarazione mendace”, quella del primo fondante comandamento del “Buon Annunzio”: “amare il prossimo mio”. Dal Cristo della rivoluzione di amore al tropos di vita del filosofo greco, innominato, ma quale “filosofo e greco”, «per incensare le vostre miserie / le pseudoscienze delle vostre frustrazioni», etc.  E le odi alla luna e il crollo fragoroso e lo smarrimento dell’umano, e gli «oligarchi senza bandiera / peggio di tiranni», incapaci di fondare libertà anche dentro di se stessi. In questa desolante mistificazione si impone il relativismo imperante, «tutto è il nulla annunziato / nel deserto dei cuori», miseria ogni conquista per rapaci avvoltoi. E nel nulla del relativismo precipita anche Dio, «parola senza significato», fra tanti Dii ove «tutto è verità / anzi nessuna verità». E alla fine del terribile nulla, ove anche Cristo è venuto per nulla, sfrattato e strumentalizzato, «non conti nulla», «non mischiarti», in questa delirante ossessione di laicoagnosticoateo dell’ovvio perbenismo, tra l’indifferenza dei ministri di culto non credenti e chierici stanchi. È l’abiura e l’assenza dello “Spirito smarrito”, “apolidi e contaminati”. E ancora quel martellante “quanto mai” sull’esser civili, sull’equità del diritto, sulla felicità, “tutto falso /favola”, quelle di una volta, bambini «col giglio e marsina». L’appello a Platone sul “procreare”, «solo consegnare numeri / ai mercanti dello sfruttamento» nel provvisorio squallore del riuso impossibile. L’essere in quanto produttore e frodatore, il mondo dei pochi veri potenti, nella sconfitta della maggioranza roussoiana (il funesto equivoco della volontà dei più e volontà generale), volontà questa che “mai ha contato”. Si erge solo Faust, in una nuova “distinzione” e “selezione”, non di razze e colori, ma di presunta capacità / di sicura efficienza / di straordinaria destrezza», nuovi potenti «che odiano il genere umano / i piccoli e gl’indifesi». Il senso comune che è spento come una candela, neppure ridotta a fioca luce. E in questo massacro delle ideologie e delle speranze il ritorno all’eterno eraclitiano πάντα ῥεῖ (panta rei), il mondo che continua, il flusso che non si ferma, neppure un ingranaggio, le lacrime da coccodrillo, la promessa mantenuta di spoglie cremate, l’inutile pianto di foscoliana memoria, quello che ci farebbe vivere in eterno. Anche gli eremi sono snaturati in una visita per turisti a gettone, ove non conta più pregare o flagellarsi, testimoniare in numeri la fede, non conta il «testimone isolato /cantore di Verità», perché «la verità non esiste… l’apocalisse è soltanto un testo letterario». E come potremmo noi vivere senza colui che è la Parola, la Verità, la Vita? Nell’estrema e completa negazione l’esigenza di tesaurizzare, non sprecare il tempo a pensare, non favoleggiare sul futuro, si sta lavorando per allungarlo. Per render ancor più drammatica questa speranza di eternità l’ironia, corrosiva e irridente sui tecnici del corpo che manipolano e promettono secoli di eternità. Perciò «lavora / produci di più», non esiste stanchezza in una età media in aumento nell’alveare assegnato. In questa società di sovrani senza scettri e corone, “in tanta bassezza, dolore profondo e sorriso di bimbi abbandono di vecchi “inservibili”, nulla scuote il torpore del mondo. Non poteva esserci una trenodia più raccapricciante del nostro vivere. Il nulla assoluto in cui nulla si salva di questo pazzo correre verso il nulla.
E allora? Il terribile, angoscioso, problematico “che fare?”. Non quello pragmatico di Lenin a Stoccarda (Что делать?, Čto delat', 1901-1902), nella ripresa allusiva del romanzo di Nikolaj Gavrilovič Černyševskij, scritto nella prigionia della fortezza di Pietro e Paolo tra il 1862-63. Un “che fare” profondo, esistenziale, da crepuscolo degli dei e fine del mondo. La tragicità delle conclusioni sta già in quel fermo riconoscimento di essere «fra liberi viandanti / sfruttati e senza diritti». Con una sola via di uscita, desolante e priva di ardire davanti ai venditori di fumo: “il tacere” davanti agli spacciatori di false monete e di nichilistiche intese per «darsi da sé un minuscolo senso / che consenta a sopravvivere / finché possibile», il dantesco «non ragioniam di loro, ma guarda e passa». Ma è possibile ridurre questo effimero passaggio sulla terra a una semplice questione di “sopravvivenza”? Meglio non esistere o finirla ad età di ragione, se non si può incidere su questo scorrere inconsulto con la Parola.
Perciò il bergsoniano élan vital, lo stimolo della vita (bios parente di bia, “forza” e “violenza”) a “resistere”, verbo possente che richiama inconsapevolmente una fase storica e un essere stati italiani in quella lotta di liberazione dai nazisti. Oltre alla residua consentita sopportazione e senza illusioni, «forti soltanto / di ciò che siamo / e di ciò che noi sapremo essere / ben oltre, / i vicoli ciechi».
Non poteva esserci epigrafe più forte e liberatoria in questo deserto di sentimenti e di Idee, in cui una voce proclama la sua Verità, voce che grida nel deserto. Sulla trenodia, sul necrologio dell’essere, si erge l’uomo che oppone il petto contro le tormente dell’esistenza.
Questo ho potuto e voluto riassumere nel breve e scattante spazio di un file.

domenica 6 agosto 2017

“La peste bianca” della denatalita’ sta uccidendo l’Europa

di Domenico Bonvegna

Una questione molto grave non è doverosamente dibattuta e presa in grave considerazione: il suicidio demografico di quasi tutti i Paesi europei. Un morbo sta contagiando tutto il continente, si tratta della denatalità, una sorta di “peste bianca”, che sta falcidiando le nostre ricche città, le nostre capitali europee.
Non ci stiamo più riproducendo e contiamo sull’immigrazione per compensare la carenza di lavoro. Peraltro un’immigrazione per la maggior parte musulmana e questo significa che rischiamo una islamizzazione dell’Europa.
Di questi temi si occupa il libro di Giulio Meotti, articolista de Il Foglio, “La fine dell’Europa. Nuove moschee e chiese abbandonate”, pubblicato da Cantagalli (2016).
Il testo ha raccolto una serie di schede che descrivono i vari passaggi della morte dell’Occidente, dell’Europa. Attenzione una morte causata principalmente non per cause esterne, ma interne. “L’Europa, - ci tiene a precisare Meotti – muore sotto i colpi della denatalità e della de-cristianizzazione”. Per Meotti questa morte è intesa anche come “processo di mutilazione demografica che sta permettendo all’islam radicale di pensare che le sconfitte subite a Poitiers nel 732, a Lepanto del 1571, e a Vienna nel 1683 (così come la loro espulsione dalla Spagna nel 1492) saranno presto vendicate: il giorno della vittoria non è lontano. Non perché l’Europa sarà conquistata da un esercito invasore sotto le bandiere del Profeta, ma perché l’Europa, dopo essersi spopolata per noia ed essersi culturalmente disarmata, avrà consegnato il futuro a quegli immigrati islamici che creeranno quello che alcuni studiosi chiamano, con allarmismo ma anche a ragione, ’Eurabia’[…]”.
Il compito intrapreso da Meotti è necessario, ma impopolare, secondo Roger Scruton.  
Anche perché gli europei, la nostra classe politica, non vuole sentire questi discorsi: “che importa, la religione, del resto, è un fatto privato e non pubblico”. Sostanzialmente il potere ordina di tenere nascosta la questione demografica. Invece bisogna gridare eccome, è quello che fa il giornalista de Il Foglio.
Nel libro Meotti presenta una serie di dati, numeri, e citazioni che fanno riferimento a numerosi studi di demografi, di statistici, ma soprattutto a storici e studiosi delle grandi civiltà e in particolare del loro tramonto. I nomi più citati sono Toynbee, Gibbon, Brague, De Jaeghere, Chaunu. Meotti nelle schede proposte più volte fa riferimento alla fine dell’impero romano, simile a quello che sta succedendo a noi.
Inoltre nel libro si evidenzia l’occultamento delle autorità dei numeri drammatici sullo spopolamento dei Paesi europei. Naturalmente con l’intenzione di non allarmare i nativi.
L’Unione Europea è oggi la regione del mondo che presenta il più basso tasso di fertilità (1,55 figli per donna) e la più alta percentuale di popolazione ultra sessantaquattrenne. E’ l’”inverno demografico”, come lo ha definito Gerard-Francois Dumont. Nel 2016 per la prima volta nella storia, l’area dell’Unione Europea ha registrato più morti che nascite. Non era mai successo nella Storia che nazioni prospere e pacifiche scegliessero di scomparire. Eppure proprio questo stanno facendo i francesi, tedeschi, spagnoli, italiani.
E’ la tendenza suicida dell’Europa contemporanea. Ci sono diversi metodi per uccidere una civiltà. Uno di questi e dei migliori è quello di farti ammalare e poi di farti credere che ti sei salvato, quando la medicina somministrata in realtà è un brutto veleno. “E’ esattamente quello che sta avvenendo con la demografia – scrive Maurice Dantec – è un tabù, guai a parlarne, guai a disturbare il malato dicendogli che i suoi giorni sono contati”. Per capire quello che ci sta succedendo, dobbiamo rileggere il discorso di Alexander Solzhenityn che ha tenuto nel 1978 davanti agli studenti di Harward. Il grande scrittore russo, superstite del gulag, rimprovera all’Occidente, di aver perso il coraggio di combattere e di vivere in un’”atmosfera di mediocrità”.
Negli anni 70’ un gruppo di scienziati e premi Nobel, il famoso “Club di Roma”, e poi con il libro “The population bomb” di Paul Erlich, ipotizzavano una bomba demografica della sovrappopolazione. Addirittura per scoraggiare le nascite,
 si proponeva di tassare persino i prodotti per l’infanzia. Questi profeti di sventura non avevano capito che la bomba era la denatalità e non la sovrappopolazione.
Meotti elenca numerosi dati, dove si ricava che tra qualche decennio, le nazioni del mondo occidentale sono destinate a scomparire, compresa la nostra Italia. A partire dal 1994, ogni anno si procrea sempre meno, fino a raggiungere il record negativo delle nascite al di sotto del numero dei morti. Secondo l’Istat, non si registrano così poche nascite dal 1861. “Il bel paese sta diventando un reparto
 geriatrico[…] trentacinque anni fa, il 9% della popolazione era costituita da bambini di età inferiore ai cinque anni. Oggi questi bambini costituiscono solo il 4,2% della popolazione”. Praticamente i bambini stanno scomparendo in Italia. Nel 2050 rappresenteranno il 2,8%. Un inverno demografico che non può essere imputato alla mancanza di benefici sociali. Infatti il calo demografico è concentrato proprio nelle cosiddette regioni ricche. Lombardia, Emilia e Liguria. A Genova, “la città più vecchia d’Europa”, mancano le risate dei bambini.
Nel 2050, il 60%degli italiani non avrà fratelli, né sorelle, né cugini, né zie o zii. E se “nel XIV secolo, la peste nera spazzò via l’80% della popolazione italiana. Nel XXI secolo, la peste bianca sta facendo scomparire l’Italia per scelta”.
Pertanto l’Italia sta collassando ma anche gli altri Paesi europei. Il mondo occidentale che ha inondato di confort e di risorse le proprie società, ora è a corto di bambini, la vera risorsa indispensabile, senza la quale nessuna delle altre ha importanza. Esempio eclatante la Russia, piena di risorse naturali, eppure sta morendo. “Intere fasce dell’Europa, intere nazioni, hanno perso la voglia di riprodursi […]”. E’ una tendenza drammatica, che sta colpendo praticamente l’intera Europa centro-meridionale e orientale. Italia, Portogallo, Germania, Spagna, Grecia, Lettonia, Lituania, Ungheria, Romania, Bulgaria. Tutti i balcani sono già senza figli. Il declino demografico per Meotti è iniziato da quando è stata scoperta la “pillola che libera il sesso”, l’anticoncezionale scoperto dal biologo Gregory Pincus, che ha causato anche l’allontanamento degli uomini dalla Chiesa e dalla fede. Per Mary Eberstadt, c’è un nesso fondamentale tra sesso libero e morte di Dio. “La rampante scristianizzazione dell’Occidente è iniziata con l’avvento della pillola anticoncezionale”.
L’unico Paese del mondo occidentale a stare bene è Israele. Detiene, diversi record, che lo rendono unico. Il più importante è il tasso di fertilità. Negli ultimi vent’anni è salito del 60%.
Negli anni 70’ durante la cosiddetta “guerra fredda”, un politico danese, suggerì al proprio Paese di cancellare le forze armate: “ci arrendiamo”, disse. Oggi dopo tanti anni, in tutta l’Europa, ha preso piede questo pensiero. In Germania, la gloriosa Wehrmacht non esiste più. Gli eserciti europei sono “grassi, obsoleti e ridondanti”, affermava l’ex comandante supremo della Nato.
Tra le tante riflessioni nel testo di Meotti, forse quella più scandalosa, potrebbe essere quella che, il crollo della fede porta come conseguenza al crollo delle nascite. Ormai è evidente che il nostro continente da tempo ha abbandonato il cristianesimo. Le chiese sono vuote, i praticanti sono sempre di meno. Intanto però, come conseguenza dell’immigrazione, aumentano quelli che credono all’islam. Meotti fotografa la situazione della Francia, dove per anni sia a destra che a sinistra, “hanno rifiutato ogni dato scientifico sulla componente etnico-religiosa della società francese in nome della superiorità del ‘modello sociale francese’[…]”. In Francia, ma anche in tutta l’Europa, è stato creato “un vuoto religioso e culturale, prima che demografico”. Tutto questo ha portato a una resa. Quale europeo è pronto a morire per i valori della nostra società europea di oggi, quella del supermercato, del consumismo triviale, dell’egoismo, dell’edonismo volgare. Cosa hanno da offrire oggi per esempio, gli europei del Belgio, dell’Olanda? Il nudo, la pornografia, l’omosessualità, l’eutanasia? Le nostre capitali europee ormai sono piene di enclave musulmane dove le istituzioni peraltro, non entrano. Basta guardare Bruxelles, Londra, Parigi, in molti quartieri, vige la shairia. “Per chi ha difficoltà a immaginare Berlino, Parigi, Londra e Bruxelles cambiare così radicalmente basta guardare Costantinopoli, oggi Istambul, una volta il centro di un impero cristiano”.
Una conseguenza ben visibile dell’abbandono della fede da parte degli europei è la chiusura e svendita di parecchie chiese. Meotti nel libro elenca episodi abbastanza eclatanti, per esempio il Quebec canadese, la provincia più decristianizzata dell’emisfero occidentale. Chiese trasformate in centri benessere o in palestre. Adesso nel Quebec gli esperti di antiquariato visitano le chiese per valutare e vendere i manufatti religiosi. In Danimarca sono 200 le chiese che non servono più. In Germania sono stati chiusi ben 515 dal 2005. In Gran Bretagna se ne svuotano 20 ogni anno, al punto che esiste un sito dedicato alla vendita delle chiese sconsacrate. La più celebre chiesa di Amsterdam, san Vincentius, è stata trasformata in moschea. Tra le tante curiosità, segnalo, quella del duomo di Erfurt, in Germania, una delle più belle costruzioni medievali, simbolo di quell’”Europa delle cattedrali”, adesso è in vendita su Ebay.
Potremmo continuare a raccontare lo stillicidio delle chiusure e vendite degli edifici religiosi cristiani, il declino religioso del nostro continente. Parallelo a questo c’è invece un aumento di fervore religioso, nelle comunità islamiche che aprono luoghi di culto in ogni città europea.
Concludo con una riflessione dello scrittore francese Richard Millet, che vede oltre alla guerra del terrorismo islamista dell’Isis, Al Nusra, Al Qaida, Boko Haram, Talebani ecc. c’è un’altra minaccia molto seria per noi. Lo aveva esplicitato anni fa, l’algerino Boumedienne, dalla tribuna dell’ONU: “Un giorno milioni di uomini lasceranno l’emisfero sud per andare nell’emisfero nord. Non ci andranno come amici. Ci andranno per conquistarlo. E lo conquisteranno popolandolo con i loro figli. E’ il ventre delle nostre donne che ci darà la vittoria”