sabato 16 settembre 2017

Lina La Mattina, “Sotto nascosta luce” (Ed. Spazio Cultura)

di Salvatore Sciandra

Mi è difficile attribuire a Lina La Mattina delle definizioni, quindi dei confini, utilizzando espressioni e aggettivi che rischierebbero di assumere il tono retorico cerimonioso e adulatorio Eppur c’è un qualcosa di spontaneamente immediato che mi induce ad accomunare la Poesia a Lina La Mattina, e nel frattempo mi solleva dal peso dell’inopportunità e dell’invadenza.
Definire la poesia è stata un'appassionante e nel contempo vacua impresa del pensiero estetico d’ogni tempo. Tempo perso per tutti, persino per i filosofi più razionalisti, meno empirici. Tant’è che nella speculazione di costoro i discorsi su di essa finiscono per assomigliare ai discorsi su Dio: quel Dio che si mostra e si nasconde. Gli eloqui sulla poesia si ridurrebbero  dunque ad una sorta di trattato di teologia negativa: intrattenimento, per dirla alla Maurice Blanchot, in cui la necessità di tacere di fronte ad un’entità indefinibile dà luogo invece a discussioni senza fine. Della qualità ontologica della poesia, che stabilisce cioè i criteri della sua stessa esistenza, non si può parlare poiché il pensiero filosofico diventerebbe “liquido”, vaporante, perderebbe il suo statuto concettuale. In effetti, se i discorsi sulla poesia si rivolgono a detta qualità ontologica, entrerebbero nella dimensione del tautologico cioè, pensando di scoprirne l’essenza, non direbbero altro che: la poesia è quello che è, la poesia è poesia.
Tant'è che Roman Jakobson ha fatto opera di rassicurazione rivestendo l’ontologia di qualità linguistiche. La quidditas della poesia, cioè ciò che distingue un testo poetico da uno non poetico, è quel che lui chiamava la “funzione poetica”, la funzione cioè di non comunicare altro messaggio che il messaggio di comunicare un messaggio fine a se stesso. La lingua poetica, nettamente distinta dalla lingua comune, è tanto più se stessa quanto più si sottrae al vincolo comunicativo. Interrompendo il rapporto con il referente (il contesto, il segno, il messaggio linguistico),  con il destinatario (il lettore),  la lingua poetica si svuoterebbe del significato, tanto da poter definire “delusiva” la sua semantica. Se si accettasse tale teoria, dovremmo concludere sostenendo la poetica dell’Arte per l’Arte: poesia libera da ogni vincolo, compreso quello comunicativo. Mallarmé ne sarebbe l’esempio più attinente quale poeta più lontano dalla prosa. Paradossalmente, anche le Avanguardie novecentesche, quali il Futurismo e il Surrealismo, nemiche della purezza estetica, possono farsi rientrare nell’alveo della poesia pura quando rifiutano, seppur con altre motivazioni, ogni convenzione stilistica, quando negano la rappresentazione e la narrazione. Raccontare, esprimere, ragionare e rappresentare, sia per Breton che per Valéry, sarebbero qualcosa che deve rimanere fuori dalla scrittura poetica.
Questo tipico cammino della modernità poetica viene dato per concluso da tempo eppure il linguaggio poetico ha continuato sulla via della depurazione anti comunicativa, tanto che i giovani autori che hanno cominciato a pubblicare dagli anni settanta in poi si sono formati sullo slogan che in poesia tutto era concesso, tranne dire qualcosa.
Montale e Pasolini sono i primi due casi, forse, di avvicinamento della poesia alla prosa, della liricità alla discorsività. Eppure Montale era stato l’apice della poesia tardo e post-simbolista, un virtuoso manierista del monologo allusivo, mentre Pasolini era partito dal lirismo dialettale per arrivare al poemetto civile. Sia l’uno che l’altro, verso la fine degli anni settanta, portano la poesia verso la prosa. Montale da Satura in poi diventa un poeta satirico, colloquiale, cerimoniale, semi giornalistico. Pasolini, sempre più insoddisfatto di sé, con Transumanar e organizzar, tocca il limite della trasandatezza stilistica: le sue poesie diventano sciatti articoli in falsi versi. Da entrambi l’attenzione tecnica viene spostata verso la prosa polemica. Ma la tendenza della poesia di spostarsi verso la prosa si era notata da tempo in altre letterature.
Per ricondurre questa spero non prolissa introduzione  a Lina la Mattina,  voglio far riferimento a Wystan Hugh Auden. Pochi poeti come Auden hanno colto il senso del cambiamento d’epoca nella poesia moderna. Auden scrive versi a centinaia, come Lina La Mattina, lunghi poemi di riflessione, come Lina La Mattina. Poeta tutt’altro che puro, è capace di versificare qualsiasi cosa (come Lina La Mattina), da un programma pubblicitario per le ferrovie a una ricetta medica. Auden non mette confini tematici di tono e di argomento alla sua poesia, come Lina La Mattina. Può parlare di tutto, come Lina La Mattina. A volte quasi ferocemente giudica la propria epoca, a volte esprime la sua gratitudine di creatura terrestre al supremo ente divino. Diversamente dai simbolisti, dai poeti puri, dagli ermetici, dai visionari e dai metafisici, in Auden, così come in Lina La Mattina, non troviamo immagini e accostamenti per analogia. I suoi versi sono funzionali all’espressione di idee e sentimenti definiti. La teatralità della sua versificazione spinge la poesia nella direzione della conversazione, della satira, dell’invettiva, del sermone. Auden, così come Lina La Mattina,  ha bisogno di una stilistica della vita morale e psichica, nelle diverse gradazioni del privato e del pubblico.

In Sotto nascosta luce Lina La Mattina è ingenua e al tempo sentimentale: e in effetti la vera poesia, il genio poetico puro non può che essere ingenuo. Lina La Mattina, quale vero poeta, è sentimentale nella misura in cui riesce a tornare ingenua, e la sua ricerca della natura, quale tramite per arrivare alla verità e a Dio  o alla verità di Dio, alla maniera romantica, è premiata dalla stessa poesia.  

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