martedì 31 ottobre 2017

La chiesa di fronte all'”inutile strage” della guerra del 15-18.

di Domenico Bonvegna

L'”Ottobre rosso”, un Ottobre di sangue che non vale solo per la rivoluzione bolscevica, ma anche per quella ungherese del 1956, e poi soprattutto, per noi italiani, per la disfatta di Caporetto. La ricorrenza del centenario della “disfatta” di Caporetto del 24 ottobre 1917 nella 1 guerra mondiale, ha suscitato diverse manifestazioni e celebrazioni, ma anche molte riflessioni sui media. La letteratura sulla 1 guerra mondiale è abbastanza vasta, ma su un argomento si trova poco, mi riferisco alla posizione della Chiesa, della Santa Sede, nei confronti del conflitto mondiale.
In quel tempo essere cattolici più o meno militanti, ma soprattutto religiosi non era facile. Da un lato c'era la difesa della Patria, dell'Italia, dall'altro, c'erano gli Imperi centrali, l'Austria. Infine, c'era soprattutto il volto crudele della guerra da combattere, l”inutile strage”, come l'ha ben definita il Santo padre Benedetto XV. Governare la Chiesa non fu facile per il Papa e per i vescovi. Benedetto XV, fu abbastanza chiaro, emise direttive chiare, mantenere sempre una posizione neutrale, al di sopra delle parti.
Nell'approssimarsi del centenario di Caporetto, ho preso visione dei 3 volumi: “I Vescovi Veneti e la Santa Sede nella guerra 1915-1918”, a cura del sacerdote Antonio Scottà, Edizioni di Storia e Letteratura, (Roma 1991). Complessivamente 1.507 pagine con diverse tavole illustrate. Si potrebbe obiettare che si tratta di un tema specifico, sostanzialmente di interessare per gli specialisti. Non è così, i vescovi veneti, proprio perché presenti sul territorio, furono diretti testimoni,“per 41 mesi di una delle più terribili guerre della storia”. Scrive nell'introduzione don Antonio Scottà:“La possibilità, quindi, di rivedere quella tragedia, sulla base di una documentazione immediata, viva, ha una notevole rilevanza storica, perché da nessun'altra fonte sinora conosciuta come quella che qui viene riprodotta si ha modo di comprendere che cosa abbia significato quella guerra per le popolazioni del Veneto”.
Don Scottà ha fatto un gran lavoro di ricerca, beneficiando dell'apertura nel 1985, degli Archivi Vaticani, ha pubblicato le numerose lettere tra i vescovi veneti e la Santa Sede, proprio nel periodo della guerra. L'antologia, copre un vuoto storiografico. L'opera del sacerdote veneto,“è di grande spessore storico e culturale”, scrive nella presentazione Gabriele De Rosa. Infatti per lo storico del movimento cattolico,“Queste lettere costituiscono, anzitutto,  una documentazione viva sulle vicende delle terre venete più esposte nella guerra: una documentazione di prima mano del ruolo primario, importantissimo svolto dal clero, dai parroci, dai cappellani, dai vescovi, in aiuto delle popolazioni[...]”. All'inizio della guerra il Veneto italiano copre 11 diocesi e risale più o meno al tempo della Repubblica di Venezia. In questa raccolta di missive occupa un posto primario, il vescovo di Padova, monsignor Luigi Pellizzo. In questo numero rilevante di lettere, il vescovo rivela una straordinaria conoscenza degli avvenimenti bellici e politici, e per l'influenza da lui esercitata sul clero e sui fedeli durante il conflitto, in una delle diocesi più vaste e più devastanti della guerra. In particolare sono utili dopo la disfatta di Caporetto,“sembrano quasi un 'reportage' giornalistico per la loro immediatezza e concretezza”. Ecco perché il Papa“era perfettamente informato sull'accadere tumultuoso e catastrofico degli avvenimenti, meglio e più tempestivamente dello stesso comando supremo italiano”. E proprio “in quel momento l'espressione “inutile strage” - scrive Scottà - era quanto di più realistico si poteva dire della guerra, perchè il continuarla comportava, per tutte le parti, un rischio maggiore che quello di finirla in qualsiasi modo”.
Le lettere di monsignor Pellizzo, occupano gran parte del 1° volume, nel 2° e 3°,  in ordine di pubblicazione, si prendono in esame le lettere di monsignor Pietro La Fontaine, vescovo di Venezia. Ferdinando Rodolfi, vescovo di Vicenza, Sante Bartolomeo Bacilieri, vescovo di Verona, Andrea Giacinto Longhi, vescovo di Treviso, monsignor Francesco Isola, vescovo di Concordia, Giosuè Cattarossi, vescovo di Feltre e Belluno. Poi monsignor Rodolfo Caroli, Eugenio Beccegato, Anastasio Rossi, vescovo di Udine. Infine Celestino Endrici, arcivescovo di Trento, dove era particolarmente difficile mantenere imparzialità e neutralità, e monsignor Francesco Borgia Sedej. Arcivescovo di Gorizia. Occorre precisare che la maggior parte di loro essendo vescovi di confine, operanti nel territorio dove si svolgeva il conflitto armato, si rivelavano patriottici e decisamente prudenti. Tranne monsignor Isola che fu accusato di austricantismo, per questo nel 1918, subì una violenta aggressione da parte dei soldati italiani, che spogliarono la curia di ogni cosa.
Praticamente“dalle lettere dei vescovi si ricava che la chiesa in Veneto abbia costituito una specie di struttura parallela a quella dello Stato, robusta ed efficiente tanto da assumere funzioni di supplenza sul piano amministrativo e in certa misura anche politico, nei momenti cruciali della guerra”. Non è una esagerazione, basta leggere le lettere, per constatare come il clero, ma anche i cattolici stessi, non possono essere tacciati di non avere il senso dello Stato.
Praticamente la guerra ha messo a nudo“la fragilità del sistema amministrativo italiano ed in particolare l'inadeguatezza dei pubblici funzionari, sia sotto il profilo tecnico e professionale che, sopratutto, sotto quello delle responsabilità civili e morali”. Sono notorie le gravi carenze di coordinamento fra gli enti locali ed il governo centrale; le divergenze fra il decisionismo dei militari e la lentezza del parlamento. A tutto questo Scottà aggiunge anche l'acuirsi delle differenze sociali a causa della guerra. Pare che nei momenti più gravi, “sia in occasione degli sgomberi delle popolazioni, che nell'imminenza del pericolo dell'invasione, la maggioranza ed in certi casi la totalità dei cittadini di condizione agiata e degli impiegati dello stato, come anche sindaci e consiglieri comunali, o non si curò affatto della popolazione o fuggì verso posti più sicuri, con la pretesa di dare a quella fuga un'attestazione di patriottismo”. Attenzione, la Chiesa cattolica,“con la sua capillare organizzazione locale e con la dedizione incondizionata del clero”,  è stata l'unica ad essere sempre presente sul territorio. “Il referente locale, rispetto all'autorità civile e militare, divenne il parroco od il vescovo”. Pertanto, è proprio a lui che “ci si rivolge per quelle esigenze organizzative attinenti alla protezione, alla sicurezza, all'assistenza, all'informazione e così via”. Non sono rari i casi in cui i parroci, nominati o costretti a fungere da commissari prefettizi, sia dai comandi militari italiani, sia da quelli austro-tedeschi durante l'anno di occupazione.
Sono i vescovi che fanno conoscere alle autorità militari le preoccupazioni delle popolazioni, sono essi che protestano per le insensate requisizioni e per gli atti di saccheggio e devastazione perpetrati dalle truppe sbandate dopo Caporetto, dimostrando, ancora una volta, di essere l'unica autorità pubblica affidabile. Sono sempre i vescovi che si sono impegnati nella salvaguardia delle opere e dei monumenti artistici e culturali, mettendo in salvo diverse opere e beni. Inoltre dalle lettere dei vescovi emerge un grande impegno della Chiesa nei confronti del dramma del profugato. Sia nello sgombero che nell'accoglienza, ci sono sempre gli uomini di Chiesa in prima fila. Forti sono le critiche dei vescovi nei confronti delle autorità sia militari che civili, per l'approssimazione e la disorganizzazione con cui attuano tali operazioni. A quanto sembra non è cambiato nulla ai nostri giorni.
Nonostante tutto questo impegno della Chiesa, ci sono sempre le accuse di disfattismo, di spionaggio, di collaborazione con il nemico o, vagamente, di austriacantismo. Certo la Chiesa, la Santa Sede, all'inizio del conflitto, assunse una posizione decisamente neutrale, ha raccomandato sia ai vescovi che ai parroci“la massima cautela e prudenza nel parlare in pubblico ed in privato delle questioni attinenti la vita politica e la guerra”.
Sono numerosi i casi di singoli preti, religiosi incriminati, mandati in esilio perché ritenuti anti patriottici. In materia di pubblica sicurezza ci sono provvedimenti straordinari con divieti di pubbliche riunioni, processioni civili e religiose. Il divieto anche di accompagnamento del viatico ed il trasporto funebre. La stampa censurata completamente. La diffusione di notizie durante la guerra, era attinenza soltanto del comando supremo militare.
Secondo Scottà,“vi sono documentazioni che attestano l'intenzione di colpire sistematicamente il clero”, sin dall'inizio della guerra,“pervengono alla Segreteria di Stato informazioni su una premeditata offensiva promossa dalla massoneria contro il clero ed in particolare contro i cappellani militari”. Esistono circolari ministeriali inviati ai comandi militari “sulla sorveglianza nei confronti del clero e dei religiosi per l'azione pacifista che,  a giudizio del governo e dei comandi, tendeva ad rallentare lo spirito di resistenza dei soldati e della popolazione; ma dietro a detta azione si intravedeva una strumentalizzazione politica del governo asburgico per le sue supposte aderenze presso la chiesa cattolica”.
Con il decreto Sacchi dell'inizio Ottobre 1917, vari sacerdoti vennero incriminati. Nei mesi susseguenti Caporetto,“si avverte chiaramente nelle lettere dei vescovi il montare di quella 'insidiosa e raffinata campagna di calunnie e di odio' orchestrata contro Benedetto XV ed in pari tempo l'inasprirsi della 'persecuzione' contro il clero ed i vescovi, allo scopo di 'coglierli in fallo, di diffamarli, di trascinarli in giudizio'”.
Ritornando a prima dell'inizio della sanguinosa guerra, il Papa si è sempre prodigato per non farla scoppiare. A meno di un mese dell'entrata in guerra dell'Italia, nell'intervista rilasciata da Benedetto XV al giornalista francese Louis Latapie, pubblicata sul giornale“Liberté”, ed il giorno dopo, 22 giugno, in Italia sul “Corriere della Sera”, il papa illustra le ragioni della neutralità della Santa Sede e di quella, vanamente auspicata, della stessa Italia. L'intervista secondo Scottà, per il papa rappresenta la“necessità di prendere le distanze dallo stato italiano e dissipare eventuali sospetti di collusione morale o politica; l'esigenza di trovare nell'attenzione dell'opinione pubblica europea un fattore di maggiore sicurezza; la possibilità di muoversi con una propria libertà d'iniziativa che l'imparzialità o neutralità legittimava”.
Anche se l'atteggiamento della Santa Sede nei confronti dell'Impero Austro-Ungarico,  non era ostile, soprattutto sotto il pontificato di San Pio X, anzi non era un segreto che Papa Sarto nutriva simpatie nei confronti dell'Austria, che praticamente era rimasta l'unico grande Stato cattolico in Europa. Tuttavia,“Giacomo Della Chiesa – ovvero Benedetto XV – eredita dal suo predecessore una Santa Sede indiscutibilmente inclinata verso la pace e la più assoluta e doverosa imparzialità. Lo stesso non si poteva dire riguardo alla condotta di molti suoi membri, che palesemente si schieravano, con esasperato patriottismo e senso nazionalistico, a favore di un intervento italiano nel conflitto mondiale, per non parlare di veri e propri interventi di «guerriglia» da parte del clero di alcune nazioni in guerra”. (Caterina Ciriello, “Benedetto XV, la guerra e le posizioni dei vescovi italiani”, Anuario de Historia de la Iglesia, Vol.23 enero-diciembre 2014, Universidad de Navarra, Pamplona, Espana)
La Ciriello tra i religiosi che inneggiano al patriottismo ricorda padre Agostino Gemelli, allora medico e cappellano militare,“il quale manifestava in suoi diversi scritti la sua profonda indole patriottica e la sua inclinazione all’intervento italiano in guerra. Essa era tale da contraddire il suo sincero spirito francescano e da attirarsi le ire del p. Generale dell’Ordine, Serafino Cimino, il quale in una lettera molto confidenziale, lo rimproverò per un articolo da lui pubblicato il 25 agosto 1915, cioè pochissimi mesi dopo l’entrata in guerra italiana, facendogli presente non solo «la penosissima impressione fatta a molte persone di altissima autorità e rettissimo sentire», ma pure il suo personale sconcerto pregandolo in futuro di «essere molto più cauto nello scrivere ed anche nel parlare” (Ibidem)
Inoltre da ricordare,“Giovanni Semeria, barnabita, le cui prediche, più che di sapore evangelico, rigurgitavano di acceso nazionalismo con grande piacere dei politici italiani, ma con grave disappunto di Benedetto XV convinto del danno causato da Semeria alla politica neutralista della Santa Sede”.(Ibidem)
Il 4 agosto poi il segretario di Stato cardinale Pietro Gasparri, indirizza ai nunzi apostolici, una lettera dove si tutela la Santa Sede la propria identità spirituale e politica. In pratica,“l'imparzialità della Santa Sede, - scrive Scottà - è un'esigenza che scaturisce dall'essenza stessa del messaggio cristiano, incarnato nella figura di Gesù, principe della pace, salvatore degli uomini. A ciò si aggiunga la convinzione che la guerra non costituisse uno strumento valido per la risoluzione dei problemi degli stati e della comunità internazionale: non sul piano degli ordinamenti interni dei singoli paesi, non per la salvaguardia dei principi del diritto, non per le aspirazioni nazionali e neppure per le istanze sociali rivendicate dal nuovo protagonismo politico e civile delle masse operaie. Infine perché la guerra avrebbe prodotto solo danni incalcolabili, e fra questi anche l'illusione dell'eliminazione dell'avversario”.
Pertanto il Papa poteva dichiarare senza tema di smentita, essendo lui Padre comune a tutti, “una perfetta imparzialità verso tutti i belligeranti”, “uno sforzo continuo di fare a tutti il maggior bene che da noi si potesse,[...] senza distinzione di nazionalità o di religione[...]”. Infine fare di tutto per affrettare la “fine di questa calamità”, per arrivare a “una pace giusta e duratura”.
La vigilanza della Santa Sede sui vescovi e sul clero e costante, già prima della guerra, e specialmente durante.“Mostra una certa tolleranza nei confronti di attestazioni patriottiche, ma insofferenza per espressioni o discorsi dai toni nazionalistici”.
Il 26 maggio 1915 la Segreteria di Stato inviava a tutti i vescovi delle direttive precise:“Allo scopo che tutti i Rev.mi Vescovi italiani seguano una stessa linea di condotta nella situazione creata dall’intervento dell’Italia nell’attuale conflitto, si indicano qui appresso alcune norme, alle quali i vescovi medesimi, nelle presenti difficili circostanze, avranno cura di uniformarsi: 1. Non devono pronunciarsi discorsi in occasione della partenza o dell’arrivo di truppe, dei funerali per i caduti in guerra o di simili avvenimenti e cerimonie pubbliche. 2. I Vescovi eviteranno in ogni eventualità di farsi iniziatori di pubbliche manifestazioni.
Per ciò, poi, che concerne l’esporre la bandiera nazionale, l’illuminare gli edifici
episcopali ecc... (nel caso che simili manifestazioni divenissero generali in tutta la città) non è loro vietato di farlo, ma si regoleranno secondo le circostanze, tenuto conto specialmente delle ubicazioni degli edifici stessi, i quali in alcune città trovansi molto in vista, in altre non lo sono. 3. Parimenti i Vescovi, ed in genere gli ecclesiastici non si faranno promotori di funerali per i caduti, di funzioni per rendimento di grazie ecc; ma se ne vengano richiesti, non si oppongano. Abbiano, tuttavia, presente che i Te Deum solenni debbono riservarsi per le vittorie decisive; come pure che a queste e simili funzioni non è opportuno che intervenga il vescovo, se può astenersene senza serio pericolo di gravi inconvenienti. 4. Quanto alla scelta della colletta pro=pace, che sinora è stata recitata, è l’altra Tempore belli, da alcuni ora proposta, è lasciato ai vescovi il determinarla per la rispettiva Diocesi”. Comunque sia, secondo lo storico Giampaolo Romanato,“è stato molto difficile per i vescovi e per la struttura ecclesiastica di base sottrarsi alle sirene nazionalistiche senza venir meno all'obbligo della solidarietà verso i combattenti, davanti alle continue richieste di benedizione delle truppe in partenza, di funerali solenni, che portavano a un coinvolgimento sempre maggiore della chiesa nel clima della guerra”.
Mentre per quanto riguarda l'atteggiamento della Santa Sede nei confronti delle organizzazioni cattoliche, in particolare nei confronti dell'”Unione Popolare fra i cattolici italiani”, che si era fatta contagiare dall'interventismo e dalla “frenesia del maggio radioso”. A questo proposito, il Papa interviene personalmente, è categoricamente sconfessa la posizione dell'associazione. Non ci può essere nessuna approvazione della “guerra che il popolo non vuole ad ogni costo”.
Concludo utilizzando ancora il bel documentato studio su Benedetto XV, i vescovi e la guerra della studiosa Caterina Ciriello, della Pontificia Università Urbaniana di Roma.
“La crudezza dell’evento bellico cambiò molte vite, insinuò sospetti, spaccò in due le comunità, la società intera. L’intento del papa fu quello di limitare il più possibile i danni della guerra ed assicurare ai fedeli la maggiore assistenza possibile. Molti vescovi furono solo pastori impegnati a curare il proprio gregge mettendo da parte i sentimenti patriottici; altri furono malvisti per la loro ostinazione ed inflessibilità nella celebrazione delle esequie ai soldati morti in guerra, causando non pochi problemi alla Santa Sede. Benedetto xv ebbe a che fare con pastori spesso ingenui e con altri fin troppo scaltri; a tutti però, da autentico padre – come si può vedere annotato nelle numerose lettere inviate ai prelati – consigliava prudenza e saggezza, rinuncia e sacrificio per il bene del popolo, dell’Italia e della Chiesa specialmente[...]”.


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